Junior Professor e contratto Post Doc: le proposte dell'Assemblea "Fuori dall'Emergenza" per la Riforma del Reclutamento

In questi anni l'ADI ha portato avanti la sua battaglia per una riforma del reclutamento accademico, basata sulla ripresa dei finanziamenti e sulla semplificazione delle figure pre-ruolo.

Attraverso le sue indagini annuali, il contributo offerto alle mozioni del CUN e il collegamento con altre forze associative e organizzazioni sindacali, l'ADI ha definito i termini fondamentali di una proposta di riforma del pre-ruolo:

  • abolizione della distinzione tra RTDa e RTDb e conseguente istituzione di una figura unica pre-ruolo con tenure-track cui si accede con il dottorato di ricerca;
  • abolizione dell'assegno di ricerca a creazione di un contratto di lavoro subordinato "post-doc", con tutele sociali, sottoposto a programmazione numerica, rapportato ai contingenti delle figura tenured e vincolato rispetto alla natura dei finanziamenti.

Questa è la proposta che ADI ha sostenuto, ad esempio, nell'ambito della sessione tematica "Reclutamento e precariato" dell'Assemblea nazionale dell'FLC "Fuori dall'Emergenza" (1-2 ottobre 2015) e che ha difeso in seno al tavolo sul reclutamento dell'incontro del PD di Udine, dinanzi agli attacchi di alcune componenti retrive del corpo accademico.

Qui di seguito, pubblichiamo il documento adottato dalla sessione tematica "Reclutamento e precariato" dell'Assemblea nazionale dell'FLC "Fuori dall'Emergenza" (1-2 ottobre 2015).

 

Premessa

La condizione attuale della scuola, dell’università e della ricerca pubblica in Italia è lo specchio di un investimento mancato del paese sul proprio futuro.

Nello scenario globale tutti i paesi industrializzati investono in sapere, formazione e ricerca per uscire dalla crisi. L’Europa, con la strategia di Lisbona, aveva fissato l’obiettivo per i Paesi Membri dell’Unione del 3% del PIL in investimenti in Ricerca e Sviluppo. Se Paesi come la Germania e la Francia hanno aumentato negli ultimi anni i loro investimenti, l’Italia procede nella più grande e sistematica operazione di distruzione del sistema di istruzione, università e ricerca investendo meno dell’1% del PIL in R&S.

In questo modo, oltre a determinare una dequalificazione complessiva della didattica e della ricerca, costruendo una scuola ed un’università sempre più classiste, in modo da provocare un’espulsione di massa dei lavoratori precari che in questi anni hanno permesso il funzionamento del nostro sistema formativo; il Governo italiano ha posto un’ipoteca pesantissima sul futuro del paese. Investire, infatti, in formazione e ricerca oggi significa attivare un moltiplicatore di ricchezza che va a beneficio di tutta la società, promuovendo uno sviluppo di qualità che è una delle vie di uscita dalla crisi, come sostengono anche autorevoli economisti capaci di vedere oltre la dottrina neo-liberale.

Per quanto riguarda specificatamente l’università, durante le ultime legislature l’effetto combinato delle leggi 133/2008 (manovra triennale di Tremonti), 240/2010 (legge Gelmini), dei tagli alle risorse, del blocco del turn over, e dei decreti attuativi della riforma universitaria (cui si aggiungono infine gli effetti della Spending Review), ci restituisce un’università pubblica drasticamente ridotta, sia per quanto riguarda l’offerta formativa che le possibilità di accesso e le opportunità di lavoro. I finanziamenti sempre più esigui, la riduzione drastica dei corsi di studio e il blocco del turn over hanno, infatti, come conseguenze principali: l’aumento delle tasse per gli studenti, la maggiore diffusione dei corsi di studio a numero chiuso e l’espulsione di una parte rilevante dei precari della docenza e della ricerca, e di 10.000 precari del personale TA.

La legge Gelmini, fortemente contestata da molte componenti del mondo universitario - studenti, ricercatori, precari, docenti e personale TA – ha perciò rappresentato un tassello fondamentale di questo processo. La concentrazione del Government nelle mani dei rettori, dei Consigli di Amministrazione (CdA) - che si vogliono nominati e non eletti - e del Direttore Generale descrive esattamente uno scenario gerarchico del sistema universitario nazionale, che contrasta il dettato costituzionale dell’autonomia. In questo contesto, soltanto in pochi atenei si è potuta ottenere una rappresentanza dei precari negli organi di governo centrali e periferici (dipartimenti, scuole, centri). Da un rapida panoramica, emerge infatti che gli assegnisti di ricerca sono scarsamente rappresentati negli atenei italiani: su 75 università, 31 non riservano loro alcuna rappresentanza; 42 la limitano ai consigli di dipartimento e solo 7 la consentono nei senati accademici. Per quanto riguarda i Ricercatori a Tempo Determinato di tipo A e B, su 75 atenei 5 non riservano alcuna rappresentanza e ben 23 la limitano ai consigli di dipartimento e di facoltà (vedi V Indagine ADI su Dottorato e Post-Doc). Tutto ciò a dimostrazione dell’ottica anti-democratica che ha dettato la ratio della riforma universitaria.

Per di più, la precarizzazione ulteriore della figura del ricercatore, con la scomparsa del ricercatore a tempo indeterminato, insieme alle nuova legislazione, segnano in maniera chiara il destino dell’università pubblica: taglio ulteriore di risorse, eliminazione del reclutamento di ricercatori, abbandono di alcuni filoni di ricerca necessari per “la crescita civile e scientifica del paese”.

Per quanto riguarda, poi, più specificatamente i precari della ricerca e della docenza, la legge Gelmini ha avuto tra i suoi principali esiti:

  • la rottamazione del precariato storico in quanto non ha previsto percorsi di stabilizzazione per tutti quei ricercatori e docenti che per molti anni hanno lavorato in maniera continuativa negli Atenei. Anzi, una serie di misure dettate “dall'efficientismo” e falsamente orientate a tutelare i “più” giovani ne ha ristretto ulteriormente il campo di opportunità;
  • la precarietà indeterminata per i giovani che si avviano alla carriera accademica poiché non definisce percorsi certi (tenure track ovvero accantonamento preventivo del budget per l’eventuale stabilizzazione) per i meritevoli che, anzi, potranno dover sostenere fino a 12 anni di precariato, senza avere alcuna garanzia per il loro futuro.

 

I cinque anni della riforma Gelmini

I due primi effetti esplosivi della Legge 240/2010 sono stati perciò la compressione dei diritti di rappresentanza e l’esplosione della figura precaria dell’assegnista di ricerca. Questa figura parasubordinata peraltro non ha diritto né alle protezioni sociali classiche, né alla DisColl, ossia la nuova e temporanea indennità di disoccupazione per i Cococo, gli ex Cocopro e figure parasubordinate. Analogo destino è toccato in sorte ai dottorandi di ricerca.

Un’altra stortura della legge Gelmini e dei suoi decreti applicativi è la sperequazione del reclutamento universitario tra atenei del Settentrione e quelli del Mezzogiorno. Ciò è dovuto al calo delle risorse generali, ma anche al rapporto tra valutazione dei sistemi accademici locali e investimenti in arruolamento di nuovi docenti.

In questo contesto drammatico è necessario avere una soluzione transitoria, che permetta al sistema universitario nazionale di invertire il suo declino e di un cambiamento radicale del sistema di reclutamento e delle figure pre-ruolo.

Nell’immediato si deve perciò permettere agli assegnisti di ricerca e agli ex ricercatori a tempo determinato introdotti dalla legge Moratti (L. 230/2005) di poter concorrere per la posizione di Ricercatore a tempo determinato di tipo b, ovvero con la tenure track.

È necessario inoltre un piano straordinario di reclutamento per iniziare a tamponare la perdita dei circa 10.000 docenti e ricercatori andati in pensione in questi anni e non sostituiti. Si tratterebbe di un turn over del 100% per un contingente ampio di personale universitario, con risorse gestite centralmente e non affidate ai singoli atenei.

In questo contesto bisogna dare dignità agli assegnisti e ai dottorandi estendendo anche a queste categorie l’indennità di disoccupazione e le tutele sociali.

 

Misure definitive per il sistema universitario

È urgente una vera revisione del meccanismo e della valutazione dell’Abilitazione scientifica nazionale. Le due tornate (2012-2013) sono state assolutamente difettose, come ampiamente annunciato da una serie di studi e articoli (si veda la lunga rassegna di Roars), oltre ad avere tempi lunghissimi. Il nuovo progetto di cambiamento dell’ASN, definito nel DM su “Criteri e parametri” per l'ASN 2.0, è assolutamente insufficiente e con molte lacune, come evidenziato dal recente parere del Consiglio Universitario Nazionale. Inoltre, non modifica i poteri dell’ANVUR che sono stati devastanti per l’università italiana.

Occorre invece una ripresa degli investimenti e la rottura del meccanismo dei punti organico che ingessano il reclutamento. La gestione delle risorse deve essere centralizzata in modo da evitare che alcuni atenei “virtuosi” abbiano la possibilità di avvantaggiarsene a danno di altri che invece hanno bisogno per riprendere il loro ruolo culturale e sociale nel territorio.

Occorre riformare il Dottorato di Ricerca, invertendo il processo di progressiva emorragia di corsi, posti a bando e borse che lo ha colpito in questi ultimi 8 anni. Per effetto del DM 45/2013 e della nota ministeriale 436/2014 il numero di posti di dottorato banditi annualmente a livello nazionale è diminuito, in un solo anno, del 25%. Il numero di dottorandi ogni 1.000 abitanti, che collocava l’Italia in fondo alle graduatorie europee già nel 2012, senza un’inversione di tendenza, da qui al 2016 subirà un ulteriore ridimensionamento, con una situazione insostenibile specialmente per gli atenei del Sud. L’offerta di posti di dottorato è caratterizzata da una forte concentrazione e sperequazione: per il XXX ciclo 10 Università (e 8 città) garantiscono il 44% dei posti mentre 7 regioni (una sola delle quali nel Sud Italia) coprono il 74,5% delle posizioni bandite (vedi V Indagine ADI su Dottorato e Post-Doc).

Alla trasformazione giuridica del Dottorato di ricerca va aggiunta la valorizzazione del titolo di dottorato al di fuori del modo accademico, sia nella pubblica amministrazione che nei settori privati, come avviene negli altri paesi europei.

Devono essere aboliti gli Assegni di ricerca e la posizione di Ricercatore a tempo determinato di tipo a (Rtd-a). Mentre deve essere creata una figura unica pre-ruolo sul modello retributivo, contributivo e di inquadramento del Ricercatore a tempo determinato di tipo b (Rtd-b). Non necessariamente deve essere lasciato come ricercatore, ma potrebbe essere trasformato in Junior Professor con la tenure track al termine dei tre anni. In questo scenario, la partecipazione democratica dei ricercatori pre-ruolo alla rappresentanza attiva e passiva negli organi dell’università deve essere tutelata in maniera chiara negli statuti degli atenei. Questa figura, infine, dovrebbe essere valorizzata anche all’esterno del mondo accademico.

Il contraltare alla figura unica pre-ruolo è il cambio dello stato giuridico della docenza con la creazione del ruolo unico per i docenti, con la divisione in fasce. Si sanerebbe così una divisione che non è più attuale e si permetterebbe ai Ricercatori di ruolo di uscire dal “non luogo” creato dalla leggi Moratti e Gelmini con la messa in esaurimento della loro posizione.

La costruzione della carriera universitaria pre-ruolo sarebbe perciò così definita:

Esempio di carriera universitaria

In questo disegno dopo il dottorato di ricerca si può accedere direttamente al concorso per Junior Professor, che è una figura tenured. I contingenti devono essere programmati e gestiti dal Miur, come anche le risorse finanziarie devono essere pianificate e amministrate centralmente.

Tuttavia si può introdurre una “fase intermedia” di Post-Doc, non pagata come borsa di studio ma come contratto di lavoro subordinato. La programmazione dei Post-Doc deve essere vincolata a parametri che evitino l’abuso di questa figura, che altrimenti potrebbe diventare un canale alternativo al reclutamento. Tali criteri potranno riguardare il rapporto numerico tra Post Doc e Junior Professor, la durata temporale dell’incarico e i fondi di finanziamento. Altrimenti avremmo la solita discriminazione per la quale si accendono posizioni Post-Doc e non quelle tenured. Infine, questa programmazione centralistica potrebbe limitare il malcostume universitario ampiamente denunciato da tutti i movimenti e da molte le associazioni di categoria dell’università.

In questa maniera avremmo un’età media di entrata in ruolo che è di 30-32 anni, simile a quella europea. Inoltre, gli studiosi che non hanno possibilità di accedere possono, in età ancora realmente giovane (28-30 anni), cercare lavoro altrove o all’estero. Ossia, hanno ancora la possibilità di decidere il destino della propria vita. Si deve ricordare infatti che l’età media di entrata in ruolo prima della Gelmini era di 34-35 anni (con contratti pre-ruolo parasubordinati) e dopo la L. 240/2010 di 42 anni per meno del 6,7% degli studiosi che erano stati precari della ricerca nei 10 anni precedenti (si veda “Ricercarsi”).

 

Risorse necessarie per il reclutamento

Tutti questi ragionamenti e proposte riportano alla parte iniziale di questo breve documento. Se non si reinvestono risorse finanziarie nel sistema universitario nazionale, ci avvieremo con una lenta agonia al crollo dell’Università pubblica. Anche l’Ocse ha segnalato che il taglio complessivo dell’11 per cento del Pil per l’istruzione in Italia, tra il 2008 e il 2013, è stato maggiore, in termini percentuali, del calo del Pil stesso. In altri termini, si è fatta cassa con il sistema educativo nazionale.

L’ultimo tassello per riattivare il sistema universitario, qualora arrivassero finanziamenti, sarebbe il recupero di un processo di assunzioni ordinato e ciclico, ossia un reclutamento programmato in ragione delle esigenze scientifiche e didattiche del sistema universitario che non solo copra il 100% delle unità di personale cessato, ma che permetta anche il recupero di tutte le risorse resesi disponibili in modo da consentire investimenti sostanziali sul personale. L’obiettivo cui tendere deve quindi essere quello, di qui al 2020, di avere almeno 65.000 posti di docente universitario (compresi gli attuali ricercatori ad esaurimento). Un investimento in risorse, quindi, ma che può e deve accompagnarsi anche ad una qualificazione del ruolo docente e dei percorsi di accesso alla docenza universitaria. A tal fine sono necessarie la revisione del percorso di accesso in ruolo, del pre-ruolo e dello stato giuridico della docenza universitaria, sulla base dell’esempio articolato nel paragrafo precedente.

È quindi necessario un ampio e pluriennale reclutamento straordinario di nuove posizioni tenured (almeno 6000 all’anno per il prossimi 5 anni) che garantisca la tenuta del sistema universitario italiano e permetta la stabilizzazione nel ruolo di un ampio numero di studiosi attualmente ai margini. Le risorse possono essere ricavate inizialmente dal pensionamento docente che, quasi al massimo della propria retribuzione tabellare, libera un ammontare più che sufficiente al finanziamento e alla ripresa del sistema universitario nazionale. Queste risorse devono essere progressivamente aumentate da un recupero dai tagli finanziari attuati.

Un altro punto necessario di cambiamento è la riduzione della tassazione universitaria, dei criteri di accesso alle borse di diritto allo studio e di valorizzazione della laurea. Bisogna invertire perciò questa fase di declino con investimenti e con una nuova politica culturale che parta dalla scuola e dai media.

Soltanto con questo programma di cambiamenti e finanziamenti alle università italiane si può invertire la tendenza al declino scientifico e culturale italiano, altrimenti in pochi anni e in controtendenza rispetto agli obiettivi Europa 2020, ci ritroveremo un sistema universitario impoverito, poco più di 40.000 docenti e ricercatori, con la riduzione drastica dell’offerta didattica e delle possibilità di esercitare programmi di ricerca avanzati e non condizionati da lobbies. Di conseguenza avremmo un paese socialmente, economicamente più povero e meno civile in cui vivere.