Ripensare l’autonomia universitaria per porre un freno alle diseguaglianze e garantire la libertà di scienza

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L’emergenza Covid-19 ha fatto riemergere anche tutte le criticità del modello di autonomia universitaria italiano, denunciato ormai da anni dall’ADI. Diventa sempre più urgente un confronto tra le associazioni di rappresentanza universitarie e le istituzioni, anche e soprattutto alla luce delle imminenti riaperture delle attività di ricerca nei diversi atenei italiani.

 

Il lockdown imposto dal Governo per fronteggiare il diffondersi dell’epidemia da Covid-19 ha causato non pochi problemi alle categorie più fragili dell’università: dottorandi, assegnisti e post-doc. Nell’iniziale silenzio del Ministero, ciascun ateneo si è mosso da solo, offrendo soluzioni a volte assai diversificate a problematiche del tutto simili. E, in qualche caso, non offrendone alcuna.

Nulla di nuovo sotto il sole: in più di un’occasione abbiamo riscontrato una notevole diversità nelle condizioni di lavoro dei dottorandi in ragione dell’università di appartenenza. Per citare un caso assai esemplificativo, la battaglia di ADI sull’aumento della borsa di dottorato — infine coronata a livello nazionale — è partita dalla spinta alla circolazione di buone pratiche sorte in alcuni atenei.

 

Oggi, però, in una fase in cui la diversità di risposte alle problematiche poste dall’emergenza sanitaria mette in dubbio la possibilità di portare avanti in sicurezza il lavoro dei colleghi, è ancor più utile interrogarsi sul senso dell’autonomia in materia universitaria. Alla qual considerazione devono aggiungersi quelle connesse al processo — tutt’ora in corso, seppur temporaneamente messo da parte per fronteggiare la priorità della crisi sanitaria ed economica — di attivazione della clausola di maggiore autonomia (anche in materia universitaria) per Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna (art. 116, comma 3, Cost.). 

 

Cosa si intende per autonomia

 

Il fondamento giuridico dell’autonomia universitaria è da ricercarsi nell’art. 33 Cost. che al primo comma dispone «L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento» e, al sesto comma, «Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato». Le università, dunque, godono di autonomia normativa, organizzativa, finanziaria, didattica e scientifica che va inquadrata nel novero delle ccdd. “autonomie funzionali”, vale a dire strumentali all’attuazione dei precetti costituzionali che riguardano la comunità di riferimento dell’ente autonomo.

Nello specifico, l’autonomia universitaria è, quindi, funzionale alla garanzia delle libertà di insegnamento e di ricerca, come pure del diritto degli studenti di accedere all’istruzione superiore. Come sempre accade in democrazia, insomma, il potere non è garantito in sé ma in quanto strumentale alla tutela di diritti e libertà dell’individuo e delle formazioni sociali.

È, però, compito primario del legislatore attuare i precetti costituzionali e, dunque, è alla stregua della legislazione vigente in materia universitaria che va valutata la resa dell’autonomia universitaria. In quest’ottica, è possibile individuarne diverse declinazioni:

 

a. autonomia-responsabilità. Questa concezione dell’autonomia universitaria è declinata dal d.lgs. 19/2012, attuativo della legge Gelmini, nel sistema Autovalutazione, Valutazione e Accreditamento (AVA) finalizzato a responsabilizzare gli atenei nelle scelte effettuate ai fini, fra l’altro, delle politiche di bilancio di ateneo, dell’accreditamento dei corsi di laurea e di dottorato e dell’accesso alla quota premiale del FFO. L’idea del legislatore era di incentivare le università a effettuare un’autovalutazione sulla base della quale selezionare gli indicatori da sottoporre, poi, alla valutazione dell’ANVUR; quest’ultima effettuata essenzialmente sulla base di criteri di sostenibilità contabile e di indicatori algoritmici sulla “qualità” di didattica e ricerca.

 

b. autonomia premiale. È l’idea di autonomia consacrata nell’art. 1, comma 2, l. 240/2010  a norma del quale «le università che hanno conseguito la stabilità e sostenibilità del bilancio, nonché risultati di elevato livello nel campo della didattica e della ricerca, possono sperimentare propri modelli funzionali e organizzativi, ivi comprese modalità di composizione e costituzione degli organi di governo e forme sostenibili di organizzazione della didattica e della ricerca su base policentrica, diverse da quelle» previste dalla legge stessa per tutti gli atenei. Di tale norma si preparava una prima attuazione — a mezzo DM — nel corso del 2019, poi naufragata. Ma la vision di fondo è quella di qualificare la differenziazione dei modelli di governance universitaria come un premio cui ambire e, di contro, l’uniformità del modello standard previsto dalla legge come una sanzione per gli atenei meno “virtuosi”. La disposizione citata, insomma, pone le basi per la formalizzazione giuridica dell’esistenza di (e della differenza fra) atenei di serie A e di serie B.

 

c. autonomia differenziata. Si tratta della locuzione con cui si qualifica la possibilità, prevista dall’art. 116, comma 3, Cost., che le Regioni chiedano ulteriori forme e condizioni di autonomia rispetto a quelle previste dalla Costituzione. Com’è noto l’iter è stato attivato da Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna ed è tutt’ora in corso, e  le competenze ulteriori richieste da tutte e tre le Regioni rientra anche l’università. In concreto si tratterebbe di: acquisire competenze di programmazione sull’offerta formativa anche in ragione delle esigenze del tessuto imprenditoriale regionale, con particolare riguardo alle lauree professionalizzanti; avere a disposizione fondi integrativi rispetto ai trasferimenti statali (fra l’altro) per assunzioni, integrazione salariale e diritto allo studio; sviluppare autonomi strumenti di sostegno alla ricerca anche internazionale. 

 

d. autonomia finanziaria. Sul piano delle entrate, gli atenei sono vincolati a contenere le forme di finanziamento ulteriori ai trasferimenti statali (fra cui le tasse universitarie) entro il 20% di questi. Pertanto, sul piano della spesa, la principale fonte di risorse a disposizione degli atenei è il FFO, la cui esiguità (su cui incidono le politiche di spending review dell’ultimo decennio) pregiudica la fruizione di una vera autonomia organizzativa, didattica e scientifica. Accanto al che va considerato che il riparto della quota premiale del FFO (il cui peso è vertiginosamente aumentato a far data dal 2008 e, soprattutto, dopo la l. 240) e dei punti organico attribuiti ai fini del reclutamento avviene sulla base dei soliti indicatori contabili di spesa e, quindi, dell’endiadi autonomia-responsabilità che ispira la legge Gelmini in ogni suo aspetto.

 

Le criticità del modello di autonomia universitaria

 

Sulla base di tale breve analisi è possibile muovere qualche considerazione critica.

La prima riguarda il divario fra nord e sud del Paese che ha ricadute sulla ampiezza e qualità dell’offerta formativa agli studenti, sulle opportunità di carriera dei giovani ricercatori, sulla libertà didattica e di ricerca di ricercatori e professori. Che un tale divario esista già è cosa nota avuto riguardo, fra l’altro, alla distribuzione sul territorio nazionale delle borse di dottorato, degli assegni di ricerca e dei contratti da RTD-a; all’ultimo piano straordinario di RTD-b (2016); al riparto dei punti organico che, mentre impedisce a molti atenei del centro-sud di coprire il proprio turn-over, consente a svariati atenei del nord di moltiplicarlo (in taluni casi esponenzialmente).

Questo divario risulterebbe incrementato sia dalla maggiore autonomia attribuita agli atenei contabilmente virtuosi nell’ipotesi di un’eventuale attuazione dell’art. 1, comma 2, l. 240, sia dalla maggiore autonomia attribuita in materia universitaria a Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna nell’ipotesi del completamento dell’iter ex art. 116, comma 3, Cost. Svincolare le università italiane dagli ultimi baluardi di uniformità nazionale per farne isole felici o tristi a seconda che si tratti di atenei (sempre più) ricchi o (sempre più) poveri e, in combinazione con la maggiore autonomia delle Regioni del nord, università regionali, acuirebbe la divaricazione esistente fra gli atenei italiani proprio in corrispondenza della più risalente e critica cesura che affligge il piano dell’uniformità territoriale dei diritti sociali.

 

In secondo luogo, l’autonomia universitaria si fonda, a legislazione vigente, su di un modello di governance contabilistica e tecnocratica in cui talune vitali risorse sono trasferite dal centro sulla base di criteri di virtuosità di bilancio e indicatori di qualità della ricerca in cui un ruolo centrale è svolto dall’ANVUR, autorità tecnica par excellence. È appena il caso di segnalare che il sistema di valutazione (unitamente a quello strettamente connesso dell’ASN) comprime la libertà di ricerca, quanto meno nel senso di spingere il ricercatore alla sovra-produzione quantitativa. 

Più ancora, il primato della tecnica determina la speculare compressione dello spazio della politica: un sistema siffatto impedisce (od offre l’alibi per evitare) di assumere scelte politiche di investimento su diritto allo studio, ricerca e assunzioni, volte a riequilibrare le condizioni di difformità riscontrabili sul territorio nazionale e, dunque, in definitiva a ristabilire un piano di uniformità sia nel godimento del diritto all’istruzione superiore degli studenti, sia nella pienezza della tutela delle libertà di ricerca ed insegnamento.

 

Infine, la legge Gelmini è stata da più parti criticata per aver eccessivamente compresso l’autonomia statutaria degli atenei, imponendo, fra l’altro, un assetto di governance alquanto rigido. La legge, in realtà, si preoccupa di precisare solo alcuni aspetti del modello istituzionale di ateneo, rimettendo gli altri alla “sensibilità” dell’autonomia universitaria. Si pensi, ad esempio, alle rappresentanze: la legge assicura la rappresentanza (ragguardevole) del personale docente e in particolare dei direttori di dipartimento in Senato, mentre non assicura quella dei dottorandi, non ipotizza neppure quella di assegnisti e post-doc e depotenzia di fatto quella dei ricercatori in ragione della condizione di precarietà strutturale cui sono sottoposti dalla legge stessa; impone, inoltre, la presenza di membri esterni nel CdA cui frattanto attribuisce le più rilevanti funzioni — assieme al rettore — di indirizzo politico, amministrativo e strategico dell’ateneo, sottraendole alle rappresentanze delle comunità accademiche e delle aree scientifiche riunite in Senato.

 

Portando a sintesi i profili critici rilevati, si può dire che la legge Gelmini ha, per un verso, limitato l’autonomia sul piano normativo e organizzativo, sviluppando, per altro verso, una concezione di autonomia finalizzata a valorizzare le differenze fra atenei nell’ottica premialità-sanzione in cui i limiti all’autonomia sono governati non dall’autorità politica dei ministeri competenti e, più in genere, del governo, ma da quella tecnica di organi privi di legittimazione democratica e di formule presuntivamente neutre.

Parallelamente, la legge non garantisce — e, anzi, pregiudica — la partecipazione democratica di quelle categorie che sostengono gran parte della didattica e della ricerca ai più rilevanti processi di governo che consistono, in fondo, nell’esercizio delle potestà autonome. Laddove queste ultime — si è detto — sono attribuite agli atenei dalla Costituzione proprio per assicurare l’espressione della libertà di didattica e ricerca.

Si può dire, insomma, che l’autonomia universitaria, per come praticata dalla normativa vigente, tradisca i precetti costituzionali di cui all’art. 33 Cost.: acuendo la discriminazione (non solo territoriale) nella fruizione delle libertà di insegnamento e ricerca, l’autonomia degli atenei non assicura l’uniformità dei diritti delle comunità universitarie, venendo meno, in conseguenza, quel nesso di funzionalità che ne rappresenta la ragione fondante.