Facciamo appello alla morale delle Università e dei Rettorati italiani

Giorgio ha 36 anni, ha un dottorato di ricerca in urbanistica e vorrebbe diventare padre, ma è al terzo anno di assegno di ricerca, cioè per il terzo anno consecutivo avrà avuto solo un contratto annuale, intervallato da qualche mese di disoccupazione. Giorgio percepisce 1400 € al mese, senza diritti, ha rinunciato a immaginare una famiglia, e condivide una casa in affitto a Roma a 600 € al mese.

Valentina si è trasferita da Milano a Trento per un assegno in sociologia, i soldi per la caparra della casa in affitto glieli ha prestati sua nonna, non avendo lei potuto mettere da parte niente durante il dottorato. Per questo motivo ha passato molte notti insonni, incolpandosi per il fatto di non essere indipendente a 29 anni, maledicendo le sue lauree, il suo dottorato, le sue ambizioni; la sua colpa più grande è quella di voler contribuire allo sviluppo della ricerca scientifica. Valentina, economista, potrebbe però realizzare il suo sogno in in Spagna, dove le hanno offerto un post-dottorato pagato quasi il doppio di quello italiano, con un costo della vita inferiore, ma lei non sa se accettare perché suo padre è molto malato e lei è figlia unica.

Maurizio è un ricercatore a tempo determinato di tipo A (RTDa) in diritto comparato al quale avevano promesso un rinnovo del contratto dopo i primi tre anni, ma ora gli hanno detto che non ci sono più le risorse finanziarie; ha 40 anni. Anche Miriam è una RTDa, lei è più giovane, ha vinto diversi premi internazionali per le sue ricerche sulla genomica, ma quando ha domandato quante posizioni da ricercatore in tenure track ci sarebbero state nel suo dipartimento, le hanno risposto che tra due anni ne bandiranno uno per Giacomo e poi in coda ci sono già Alessia, Fabio e Luca, che lavorano da anni in settori disciplinari diversi; se vuole rimanere lì, prima di ottenere un contratto più lungo di sei mesi o 1 anno, deve aspettare ancora circa 5 anni. A quel punto ne avrà 37 e, solo allora, potrà iniziare a pensare se vuole diventare madre e aprire un mutuo.

Giovanni è un fisico, al quinto anno di assegno, a Milano la sera lavora in un bar per potersi permettere l’affitto, i soldi per il dentista li ha chiesti alla sua compagna che lavora in azienda. Giulio, che ha pubblicato sulla più importante rivista mondiale del suo settore in Archeologia, alla settima seduta dallo psicologo per curare i suoi attacchi di panico, ha capito che nessuna terapia guarirà mai il fatto che da cinque anni vive con borse che non gli permettono di fare nemmeno una settimana di vacanza, lavorando 50 ore a settimana, sperando in un posto di lavoro in accademia che probabilmente non avrà mai, mentre tutti i professori con cui lavora lodano la sua competenza metodologica.

I nomi sono di fantasia, ma le storie, le nostre storie, purtroppo, sono tutte vere.

Ciò che di queste storie più colpisce è che esse sbugiardano ogni retorica sul “merito”: perché in Italia si consente che i giovani con più titoli di studio e riconoscimenti spesso internazionali vivono nel costante bisogno economico, nella più totale e prolungata incertezza e senza reale riconoscimento del contributo che danno alla scienza e al sapere?

Eppure, di ricerca e di ricercatori, così come di professori e figure docenti universitarie, in Italia, c’è un disperato bisogno: all’Università italiana mancano circa quarantamila tra ricercatori in tenure track, professori associati e professori ordinari, solo per mantenere il sistema a regime. Tutto ciò, nonostante la costante emorragia di studenti, dovuta a un diritto allo studio insufficiente a colmare le difficoltà economiche delle famiglie, la dispersione scolastica precedente e l’abbandono degli studi superiori successivo, soprattutto nel Meridione.

Da ormai 15 anni, cioè a seguito della Legge 30 dicembre 2010, n. 240 (la cosiddetta Legge Gelmini), il pre-ruolo universitario, cioè lo spazio temporale e di carriera che intercorre tra la fine del dottorato e la stabilizzazione nel ruolo di professore associato, è diventato un incubo per chiunque lo viva, dal punto di vista economico, psicologico, sociale. Gli anni di precariato richiesti a chi aspiri a una posizione stabile in università si attestano su un minimo di 10, spesso anche di più; molto spesso intervallati da spostamenti tra città italiane e straniere.

L’IX Indagine ADI ha segnalato che nel 2020 i periodi di disoccupazione anche prolungati erano la norma in circa il 40% dei casi, numero confermato dai dati preliminari riguardo al periodo presente. In circa un terzo dei casi di intermittenza, il periodo di disoccupazione supera i 3 mesi. Circa due terzi dei contratti di assegno durano un anno, determinando un impatto fortissimo in termini di diminuzione della qualità della ricerca: chiunque, esposto a tale brevità contrattuale, passa larga parte del tempo del contratto in essere a cercare un’alternativa, seconde occupazioni e altre attività in attesa di prendere atto di un probabile mancato rinnovo. Se già le ore di lavoro alle quali sono sottoposte dottorande e dottorandi superano (nella metà dei casi) le 40 ore settimanali, questo carico non può che aumentare inevitabilmente con l’assegno. Questo vuol dire che un precario della ricerca lavora per quelli che, in altre configurazioni lavorative, sarebbero meno di 9 € l’ora. Nonostante l’impegno profuso in un lavoro ben più che a tempo pieno, più di un terzo dei precari della ricerca riesce a risparmiare solamente 100 € al mese, e per quasi la metà di loro una spesa imprevista di 800 € sarebbe insostenibile (ricordiamo che 800 € sono la soglia minima che l’ISTAT utilizza per indicare la grave difficoltà finanziaria).

Non stupisce che i ricercatori italiani, già sottoposti in Italia a valutazioni continue della qualità e della quantità della produzione scientifica, una volta arrivati all’estero si distinguano per numero record di bandi e finanziamenti vinti. Non mancano, infatti, dedizione, capacità, “merito”: ciò che manca in Italia sono le condizioni di serenità e stabilità che consentono di esprimere al massimo le potenzialità di ciascuno/a.

Tutte le professioni, specialmente quelle altamente qualificate, richiedono un periodo di tirocinio, apprendistato, “gavetta”, come piace chiamarla ad alcuni. Eppure, la peculiarità del percorso della ricerca universitaria sta nel fatto che, terminata questa gavetta al prezzo di sacrifici personali e familiari (sia della famiglia di origine che di quella che non ci si può creare, con buona pace della genitorialità e delle culle del nostro Paese), invece dell’ingresso ufficiale nella professione, l’80% di coloro che hanno terminato il percorso vengono espulsi dal sistema. Inoltre, la peculiarità della gavetta universitaria consiste nel suo non essere mezzo per acquisire competenze professionali, già acquisite durante il dottorato e perfezionate nel primo anno di post-doc, ma semmai un lunghissimo servizio di prestazioni altamente qualificate mai riconosciute come tali.

Per coloro che vivono quotidianamente il mondo della ricerca universitaria, questo quadro non desta scalpore, paradossalmente esso è divenuto così ovvio e legittimato da porre coloro che lo analizzano come problematico nella posizione di essere scandalosi. Infatti, a fronte di queste condizioni non dignitose delle precarie e dei precari della ricerca, colpisce negativamente l’assordante silenzio degli atenei e dei rettorati nei confronti del Ministero dell’Università e della Ricerca (MUR). Anzi, un silenzio riempito dalla volontà, tutta politica, del MUR e di parte dell’Accademia italiana di precarizzare ancora di più il lavoro di ricerca italiano, data l’imminenza di un disegno di legge governativo, risultato del gruppo di lavoro dei “saggi”, che vedrebbe l’istituzione di nuove figure di ricercatori “stagionali”, di research fellowship, pagate poco e male per soli sei mesi di lavoro intermittente.

Per questo motivo riteniamo sia giunto il momento che siano proprio i docenti, a partire dai professori ordinari e da tutte e tutti gli strutturati, ad aprire un cono di luce su questa situazione e a chiedere a gran voce finanziamenti adeguati a incrementare le retribuzioni del settore, l’offerta di posizioni stabili e di posizioni che, seppur temporalmente precarie, diano modo di progredire nella carriera accademica.

Il momento è ormai maturo affinché siano loro, in prima istanza, a ribadire che il precariato estremo, decennale e mal pagato non deve essere il modus principale e maggioritario di impiego nella ricerca. Esso non risponde a nessuna delle reali esigenze di qualità, di elevazione sociale, di sviluppo umano integrale che devono essere elementi costitutivi del DNA dell’università come istituzione.

In più, oggi il lavoro del docente universitario si compone di miriadi di incombenze burocratiche che rendono quasi impossibile quelle che dovrebbero essere le sue occupazioni principali: la ricerca, la didattica e la terza missione. Questo dedalo kafkiano di scadenze, moduli, pagamenti, bandi, non può essere affrontato da una sola persona, ma richiede la presenza di molte figure di supporto. Eppure, nonostante la vitale necessità di queste figure, senza le quali la maggior parte dei progetti si bloccherebbero, a danno di studenti, imprese, enti pubblici, si predilige il tacito assenso del lavoro gratuito alla legittima richiesta di sostegno economico e assunzioni adeguate.

Siamo convinti che nessuna professoressa e nessun professore universitario vorrebbero per i propri figli una condizione lavorativa come quella che viene a noi offerta. Nessuno vorrebbe che per quasi dieci anni i propri figli fossero costretti a scegliere se coltivare le proprie speranze e talenti o avere un’indipendenza economica; scegliere tra riuscire a pubblicare i risultati della propria ricerca o sapere in quale città si lavorerà tra sei mesi; scegliere tra avere una famiglia o curare un burn-out. Sappiamo che i professori universitari provano ad offrire ai loro dottorandi e assegnisti, ai loro collaboratori RTDa il massimo delle opportunità possibili; eppure, “a parità di risorse” non c’è alcuna speranza di costruire un futuro né funzionale per gli interessi collettivi, né dignitoso per gli interessi personali. Non possiamo non stupirci che non si consideri come vergognosa l’espulsione dal sistema di un numero di ricercatori che non ha pari in europa, a fronte di un’offerta didattica che raggiunge un numero minore di studenti rispetto alla media europea e un rapporto docenti-studenti più volte denunciato come fuori dai parametri ritenuti idonei.

Ciò che non sappiamo spiegarci è come mai oggi, queste persone che per noi sono non solo guide scientifiche ma mentori ed esempi, pur disponendo di una notevole forza mediatica, non denuncino quotidianamente l’ingiustizia di un sistema di reclutamento che non ha pari in europa per esiguità di finanziamenti. Sappiamo benissimo che ciascun professore/professoressa, specie per chi ha avuto la sfortuna di essere giovane nel periodo post Legge Gelmini, ha fatto la sua parte di gavetta, conoscendone tutte le asperità. E pure non capiamo perché oggi, proprio in virtù di questa esperienza, non ci si rifiuti di accettare questo modello e i suoi progressivi ulteriori peggioramenti. Anzi, al contrario si esprima spesso una sorta di sindrome del sopravvissuto: se loro hanno superato il precariato, talvolta addirittura ammettendo di essersi semplicemente ritrovati nel posto giusto al momento giusto, allora tutti i precari attuali devono patire almeno altrettanto. E poco importa che il potere d'acquisto della borsa di dottorato oggi sia ben inferiore a quella del 2008, che nel frattempo il numero dei colleghi trasferiti all’estero sia aumentato, che coloro che alla fine ce la fanno siano soprattutto coloro che possono permettersi di affrontare economicamente una serie impietosa di sacrifici, traslochi, affitti, disagi fisici e mentali. Non si può tacere che la nostra selezione - oggi ancor più marcatamente - sta avvenendo per origine e censo di appartenenza. A fare la differenza tra precariato e stabilità non sono né talento, né dedizione, né bravura, ma soprattutto il capitale economico e culturale ereditato.

L’Università deve tornare a essere luogo di opportunità, crescita sociale e personale, sviluppo economico e culturale, progresso civile e umano. Noi stiamo facendo la nostra parte, in un sistema che per regola ci mastica e ci sputa. Vi chiediamo di tenderci una mano o, meglio ancora, di usarla per bussare alle porte del Ministero e della politica, portando tutte le buone ragioni per investire in ciò che di più importante, caro e di valore ha il nostro Paese: il suo Sapere, le sue Persone.