
Evoluzione normativa e finanziaria del FFO (2019–2025)
Il periodo 2019–2025 ha conosciuto significativi mutamenti nel finanziamento pubblico delle università statali, sia sul piano delle risorse stanziate che su quello dei criteri di allocazione. Negli anni precedenti al 2024 il Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) aveva registrato una graduale crescita nominale, grazie anche a previsioni di legge che miravano a un progressivo potenziamento del sistema universitario. In particolare, la Legge di Bilancio 2022 (governo Draghi) aveva tracciato un percorso di aumento graduale del FFO fino al 2026, con un obiettivo di 9,5 miliardi di euro nel 2025. Tale programmazione presupponeva l’attuazione di piani straordinari di reclutamento, come quelli varati dai Ministri Manfredi e Messa, e un incremento costante dei finanziamenti, in linea con gli impegni del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR).
Dal punto di vista normativo, il modello di riparto dell’FFO è rimasto ancorato alle disposizioni della legge Gelmini (L. 240/2010, art. 11), ma con cambiamenti strutturali graduali: la quota premiale (legata alla valutazione della qualità della ricerca e ad altri indicatori di performance) è stata portata al massimo consentito del 30% del totale, mentre la quota base (fondi assegnati su base storica e fabbisogni standard) è andata riducendosi in proporzione. Parallelamente, l’allocazione basata sul costo standard per studente in corso è cresciuta di 2 punti percentuali l’anno, passando dal 26% circa di inizio decennio a circa il 36% dell’FFO 2025, in attuazione dell’obiettivo di lungo periodo di assegnare il 70% del Fondo secondo questo criterio e il restante 30% in base ai risultati conseguiti. Queste dinamiche hanno comportato una progressiva concentrazione delle risorse sugli indicatori di performance, con il rischio di accentuare squilibri tra atenei forti e atenei in condizioni socio-economiche svantaggiate.
Dal lato delle risorse totali, dopo incrementi nominali dal 2019 al 2022 (FFO passato da circa €7,5 miliardi a oltre €8,6 miliardi), il 2023 ha visto un FFO effettivo di circa €9,21 miliardi, in linea con le previsioni. Il 2024 ha segnato invece una brusca frenata: il governo in carica ha ridotto lo stanziamento rispetto alle traiettorie previste, assegnando €9,03 miliardi anziché i €9,45 miliardi programmati. Ne è derivato un taglio effettivo di 419 milioni sul 2024, aggravato dalla mancata attuazione di €340 milioni previsti per un piano straordinario di reclutamento (c.d. “Piano Messa” 2022). Complessivamente, rispetto alle previsioni 2022, il sistema ha subìto nel 2024 un minore finanziamento per circa €519 milioni.
Questa improvvisa contrazione ha avuto immediati effetti: nell’estate 2024 si è aperto un conflitto estemporaneo e di facciata tra attori diversi del sistema universitario (MUR, CUN, CRUI); molti atenei sono corsi ai ripari congelando assunzioni già programmate o sospendendo il turn-over del personale in uscita. Il governo ha persino proposto di limitare per il 2024 il turn-over al 75%, frenando le nuove immissioni in ruolo. Misura rimandata dalla Legge di bilancio 2024 al 2026. Ciò ha significato, comunque, rinviare o bloccare la chiamata di nuovi docenti e ricercatori, con ripercussioni sia sulla didattica sia sulle prospettive di carriera dei giovani (si pensi ai tanti assegnisti e ricercatori a tempo determinato in attesa di stabilizzazione).
Nel 2025 il finanziamento ordinario risale nominalmente a €9,368 miliardi, segnando +3,73% sul 2024 (circa +€337 milioni). In apparenza, si tratta del massimo storico nominale del FFO, con cui il governo Meloni e il Ministero guidato dalla Sen. Prof.ssa Anna Maria Bernini rivendicano di aver invertito la tendenza negativa e recuperato le risorse perse. Tuttavia, come vedremo nel dettaglio, questo aumento è in buona parte frutto di operazioni contabili e non di un reale cambio di passo strutturale. Rispetto al piano definito nella finanziaria 2022, anche nel 2025 persiste un divario negativo di circa 132 milioni (€9,368 mld reali vs €9,500 mld attesi). Sommandolo al taglio 2024, il biennio 2024-25 registra €551 milioni di minori finanziamenti rispetto a quanto originariamente previsto. Nello stesso biennio, gli atenei hanno dovuto far fronte a maggiori spese fisse (soprattutto per stipendi) stimate in oltre €600 milioni dovute ai rinnovi contrattuali e all’inflazione. Ciò equivale a dire che, contando l’inflazione, le università pubbliche nel 2024-25 hanno dovuto ridurre le attività per oltre un miliardo di euro, circa il 6% delle entrate, comprimendo organici e investimenti.
Di seguito si riportano i valori salienti del FFO dal 2022 al 2025, confrontando gli stanziamenti programmati con quelli effettivi e indicando i tagli subiti (dati in milioni di euro):
Anno |
FFO previsto (Legge 2022) |
FFO effettivo |
Taglio (rispetto al previsto) |
2022 |
8.655 |
8.655 |
0 |
2023 |
9.200 |
9.209 |
n.d. (lievi assestamenti) |
2024 |
9.450 |
9.031 |
-419 |
2025 |
9.500 |
9.368 |
-132 |
Totale 24–25 |
– |
– |
-551 |
Tabella 1 – Confronto tra FFO programmato e FFO effettivo, 2022–2025 (valori in milioni di €). I tagli 2024-25 hanno inciso pesantemente sulle capacità di spesa degli atenei, già gravate da circa €600 milioni di costi aggiuntivi per il personale strutturato nel biennio.
Dal 2019 ad oggi, inoltre, si sono susseguite alcune riforme di settore con impatto sul finanziamento e sul personale. Da un lato, il PNRR ha destinato risorse straordinarie a progetti di ricerca e posizioni temporanee (oltre 25.000 assegni di ricerca e 10.000 RTDa finanziati negli ultimi anni), che però esauriranno i loro effetti entro il 2026. Dall’altro, la riforma del pre-ruolo del 2022 (D.L. 36/2022 conv. L.79/2022) aveva introdotto un percorso di tenure-track per i giovani ricercatori, poi messo in discussione dall’attuale maggioranza con proposte di legge orientate a contratti più flessibili e meno tutelati. In particolare, il DDL 1240/2024 e successivi emendamenti Occhiuto-Cattaneo trasferiti nella L. 79/2025 miravano a reintrodurre forme iper-precarie di ricercatore (assistente prima, incaricato adesso) strutturalmente e scientemente prive di un vero percorso di stabilizzazione, in deroga alle tutele introdotte nel 2022 e alle raccomandazioni UE. Tali iniziative di ulteriore precarizzazione hanno incontrato l’opposizione più netta dell’ADI, delle forze associative e sindacali del mondo universitario, con mobilitazioni di precari della didattica e della ricerca a livello nazionale (scioperi, assemblee, volantinaggi già a partire da giugno 2024 supportati dall’ADI fino alla prima metà 2025). Questo contesto normativo turbolento ha contribuito all’incertezza, influenzando la programmazione degli atenei, specialmente in relazione al reclutamento del personale.
Analisi del decreto FFO 2025: struttura, criteri, criticità
Lo schema di Decreto Ministeriale FFO 2025 ricalca nella struttura di base i decreti degli anni precedenti, presentando però alcuni elementi peculiari dovuti alle novità legislative e finanziarie intervenute. Il Consiglio Universitario Nazionale (CUN), nel suo parere ufficiale del 9 luglio 2025, ha rilevato come lo schema 2025 “riflett[a], con alcune marginali variazioni [...] la struttura degli FFO dell’ultimo triennio”. Di seguito analizziamo le principali componenti del riparto 2025, evidenziandone gli aspetti positivi e le criticità emerse dai pareri consultivi (CUN e CNSU) e dalle analisi sindacali.
Quota base consolidata e costo standard di ateneo
La quota base per il 2025 ammonta formalmente a €4.681,7 milioni, pari a circa il 50% dell’intero FFO. Questo dato, a prima vista molto positivo (la quota base cresce di +€667 milioni rispetto al 2024, pari a +18,9%), è il frutto di un’operazione contabile. Per la prima volta, infatti, nel 2025 il MUR ha consolidato nella quota base una serie di finanziamenti prima classificati come finalizzati o straordinari: i fondi residui dei piani di reclutamento straordinario conclusi (piani Manfredi e Messa per RTDb, €477 milioni), le risorse per la compensazione biennale degli scatti stipendiali dei docenti (€146 milioni) e il fondo di valorizzazione del personale TAB 2022 (€48 milioni). Complessivamente, ben €671 milioni sono stati “aggiunti” alla base 2025 in virtù di tale riclassificazione.
Il Consiglio Nazionale degli Studenti Universitari (CNSU) ha sottolineato come questo incremento della base sia in larga parte “artificioso e distorto”, perché deriva dallo spostamento di risorse esistenti più che da nuovi finanziamenti. Al netto di queste voci aggiuntive, la quota base effettivamente comparabile con quella 2024 risulta di poco superiore ai €4,0 miliardi, sostanzialmente allineata al livello dell’anno precedente. La FLC CGIL calcola infatti un valore “reale” della base 2025 di circa €4,143 miliardi, solo +5,2% rispetto al 2024, ma ancora inferiore di 178 milioni (-4,1%) rispetto al 2023. Ciò significa che l’aumento del 2025 non colma il pesante calo subito dalla base nel 2024 (quando era scesa di 384 milioni, -8,9% rispetto al 2023). Inoltre – nota la FLC – consolidare queste risorse nella base senza modificare i criteri di distribuzione può amplificare le sperequazioni: i fondi dei piani straordinari erano assegnati con criteri legati alla performance (VQR) o “per testa” di personale, diversi da quelli proporzionali alla quota storica. Incorporarli nella base, senza correttivi, significa avvantaggiare in modo permanente gli atenei che ne avevano beneficiato, anziché distribuire equamente nuovo finanziamento strutturale. Su questo punto il CUN suggerisce infatti di “congelare” temporaneamente la progressione del costo standard all’interno della quota base, che nel 2025 ha raggiunto il 36% del Fondo, onde evitare effetti distorsivi a danno di alcuni atenei. In particolare, l’aumento annuale continuo di tale criterio (previsto fino al tetto del 70%) rischia di penalizzare gli atenei in contesti socio-economici deboli: atenei con molti studenti esonerati dalle tasse (per reddito basso) e/o in zone di calo demografico vedono ridursi gli introiti e gli immatricolati, e quindi subiscono perdite sulla quota base legata al costo standard. Il CUN richiama a tal proposito un recente referto della Corte dei Conti (maggio 2025) che evidenzia crescenti difficoltà di bilancio negli atenei del Mezzogiorno, la cui platea studentesca si restringe e impoverisce, con conseguenti minori risorse dalla quota base. Si tratta di elementi di criticità strutturale che – a parere unanime di CUN, CNSU e parti sociali – richiederebbero correttivi prospettici nel modello di finanziamento.
La ricostituzione della quota base 2025 è certamente un fatto positivo in quanto ridà fiato ai bilanci degli atenei: il CUN valuta forse troppo entusiasticamente “con favore” questo incremento, sottolineando che risorse consolidate permettono di affrontare i maggiori costi del personale e dell’energia e di perseguire strategie di sviluppo. Tuttavia, tale aumento va ridimensionato nella sua portata reale e analizzato criticamente: esso recupera solo in parte i tagli precedenti e deriva in buona misura dalla riclassificazione di fondi preesistenti, stanziati da ultimo dal Governo Draghi e dalla Ministra Maria Cristina Messa. L’operazione fornisce agli atenei maggiore autonomia nell’uso di queste risorse (non più vincolate a specifici piani), autonomia che il CUN apprezza perché offre flessibilità nella programmazione del personale. Al tempo stesso, senza una revisione dei criteri distributivi, essa non migliora l’equità del sistema e anzi può consolidare divari. In prospettiva, quindi, si auspicano interventi di riequilibrio: ad esempio, il CNSU propone di rafforzare i meccanismi strutturali di compensazione per gli atenei per via della presenza di molti studenti fuori corso o esonerati, integrando tali fattori nel calcolo del costo standard per non aggravare le disuguaglianze.
Quota premiale e valutazione della performance
La quota premiale per il 2025 è fissata in €2,5 miliardi, corrispondente al 30% dell’FFO – il livello più alto mai registrato, rinvigorito dopo che nel 2024 la quota premiale era scesa a €2,4 miliardi (a causa della riduzione del Fondo totale). Il mantenimento di una così ampia fetta di risorse legata a criteri di merito è oggetto di valutazioni divergenti. Da un lato, il Ministero e la maggioranza dei rettori sottolineano la continuità con gli indirizzi di legislazione vigente: la scelta politica degli ultimi anni è di premiare il miglioramento di risultati e qualità, in linea con l’obiettivo di lungo periodo di allocare il 30% del FFO in base ai risultati conseguiti (VQR, indicatori di reclutamento, qualità del sistema). Anche per il 2025, infatti, la ripartizione della quota premiale rimane invariata nei suoi parametri: 60% basato sui risultati della Valutazione della Qualità della Ricerca (ancora quelli della VQR 2015–2019, poiché la nuova VQR 2020–24 si applicherà solo dal prossimo anno), 20% su indicatori di qualità del sistema universitario e 20% sulle politiche di reclutamento degli atenei (indicatori introdotti con DM 773/2024). Il CUN evidenzia positivamente il fatto che questi indicatori di “qualità del sistema” siano stati introdotti, ma suggerisce di ripensarne il collocamento fuori da una logica puramente premiale: andrebbero inseriti in un sistema di finanziamento con principi differenti, perché legarli alla competizione di performance rischia di vanificarne la finalità equilibratrice.
Dall’altro lato, permangono forti critiche sul meccanismo premiale attuale. Il CNSU ribadisce il proprio giudizio negativo: una quota premiale così congegnata “incentiva una competizione diseguale e iper-performativa tra atenei”, favorendo quelli già forti e aggravando le disuguaglianze territoriali. Il fatto che il 60% di essa si basi ancora su una VQR datata (2015–19) è indicativo di ritardi e criticità metodologiche nella valutazione, e mantiene congelato il quadro premiale sui risultati passati. Inoltre – osserva il CNSU – le restanti componenti (qualità del sistema e politiche di reclutamento) pur lodevoli negli intenti, finiscono per essere “incastonate” dentro una logica premiale che le snatura. Il risultato è un sistema di finanziamento sbilanciato sul versante scientifico: circa due terzi dell’intero FFO (tra quota premiale e parte della base legata al costo standard) sono oggi allocati secondo parametri che poco riflettono la qualità della didattica, dei servizi agli studenti e la funzione di inclusione sociale dell’università. Questa impostazione – denuncia il CNSU – rischia di alimentare una cultura accademica orientata solo alla produttività di ricerca, a scapito dell’attenzione per la qualità formativa e l’inclusività, con ricadute negative anche sugli studenti (ambienti più competitivi e meno accoglienti).
Sia il CUN che il CNSU convergono sulla necessità di rivedere i criteri premiali in futuro. Il CUN auspica una revisione degli indicatori per “assicurare che il sistema pubblico possa raggiungere pienamente gli obiettivi strategici basati sulla produzione di ricerca e didattica di qualità, con attenzione alle metodologie innovative e alla terza missione”. Il CNSU propone esplicitamente di superare l’attuale sbilanciamento verso la dimensione scientifica, valorizzando maggiormente la componente didattica nel finanziamento. In particolare, suggerisce di sviluppare nuovi indicatori che premino la qualità complessiva del sistema (didattica, servizi, placement, impatto sociale) all’interno di un quadro distributivo più equo e meno competitivo.
L’assenza, nel decreto 2025, di correttivi o ridimensionamenti della quota premiale è, per l’ADI, criticità di assoluto rilievo, che cristallizza le disparità esistenti e il modello ipercompetitivo di università disegnato a partire dagli anni Novanta del secolo scorso: in un contesto in cui le risorse complessive non crescono a sufficienza, mantenere così elevata la parte distribuita per “performance” significa di fatto premiare gli atenei già avvantaggiati (per dimensioni, strutture e contesto territoriale) e lasciare indietro chi si trova in condizioni più sfavorevoli. Ciò appare in contrasto con l’obiettivo di coesione del sistema nazionale e, come vedremo, richiede di essere bilanciato da robusti interventi perequativi.
Intervento perequativo e clausola di salvaguardia
La quota perequativa dell’FFO (art. 5 dello schema di decreto) è lo strumento volto a mitigare gli squilibri tra gli atenei e contiene le variazioni annuali dei trasferimenti entro certe soglie. Per il 2025, lo stanziamento destinato a fini perequativi è di soli €141 milioni, equivalente a circa l’1,5% dell’FFO totale. Questo importo è praticamente invariato rispetto all’anno scorso (€136 milioni nel 2024) e non recupera i tagli effettuati di recente: era €150 milioni nel 2023 e addirittura €175 milioni annui nel triennio 2019-2021, prima di subire riduzioni. Sia il CUN sia il CNSU concordano che la quota perequativa resti largamente insufficiente. Il CNSU chiede di “aumentare in modo strutturale” questa voce, ferma a una soglia stagnante dell’1,5% del finanziamento totale, ritenendola inadeguata ad assicurare la tenuta complessiva del sistema. Anche la FLC CGIL osserva che dedicare solo circa l’1,5% del Fondo a compensare i divari territoriali significa in realtà non poter “perequare realmente le diverse condizioni sociali ed economiche dei territori in cui operano gli atenei”. In altre parole, l’intervento perequativo è oggi troppo esiguo per incidere sulle diseguaglianze strutturali tra università di aree forti e deboli: servirebbero risorse ben maggiori (la FLC suggerisce implicitamente di tornare almeno ai livelli pre-2022, se non oltre).
La clausola di salvaguardia per il 2025, disciplinata nell’Allegato 2 del decreto, fissa gli estremi di variazione dei fondi FFO di ogni ateneo rispetto all’anno precedente. Questo meccanismo è stato modificato in senso migliorativo nel 2025: mentre lo scorso anno gli atenei potevano subire una variazione compresa tra -4% (perdite) e 0%, quest’anno tutti avranno un incremento almeno del +1% e al massimo del +6% rispetto al 2024. Ciò significa che nessuna università vedrà diminuire i trasferimenti in valore assoluto (novità positiva) e, al contempo, si pone un tetto alla crescita per quelle che, in base ai criteri di merito, avrebbero guadagnato di più. Il CUN valuta molto positivamente l’introduzione di un limite minimo “per la prima volta […] positivo (+1%)”, ritenendo che garantire un segno “+” a tutti gli atenei sia importante in una fase delicata. Anche il limite massimo del +6% è considerato dal CUN in maniera favorevole, come strumento per ridurre la distanza tra atenei più e meno virtuosi evitando eccessi di divergenza.
Il CNSU condivide solo in parte questa analisi: se da un lato apprezza la soglia minima che “impone una crescita a tutti gli atenei”, dall’altro guarda con perplessità al tetto del +6%, intravedendo in esso una contraddizione rispetto alla finalità perequativa. In teoria, infatti, il fondo perequativo dovrebbe servire ad appianare le divergenze, mentre un meccanismo che garantisce comunque fino a +6% ai “più performanti” significa continuare a premiare gli atenei forti anche tramite questo fondo. In sostanza, la critica è che la soglia di salvaguardia 2025 – pur eliminando le decurtazioni dell’anno precedente – avalla il principio premiale persino nella distribuzione perequativa: gli atenei in maggiore difficoltà crescono solo del minimo (+1%), quelli già in vantaggio possono crescere fino a sei volte tanto. Ciò, secondo il CNSU, tradisce in parte lo scopo perequativo e “amplifica la divergenza” relativa, anche se in un quadro di risorse nominali in lieve rialzo.
Sul versante perequativo, in definitiva, il decreto FFO 2025 presenta luci e ombre. Da un lato, accoglie l’istanza – sollecitata da più parti – di evitare ulteriori arretramenti ai singoli atenei: dopo il 2024 “recessivo”, si garantisce a tutti un piccolo segno positivo. Dall’altro lato, la dote perequativa rimane modestissima in proporzione al Fondo (1,5%), e le modalità di impiego tendono più a contenere le variazioni percentuali che non a riequilibrare i divari di capacità finanziaria in assoluto. In un contesto di tagli e costi crescenti, come nota la FLC CGIL, il fatto che il recupero nominale 2025 venga distribuito ampliando la forbice delle variazioni (da +1 a +6%) può paradossalmente portare a divergenze maggiori tra atenei rispetto all’anno precedente. Il sistema di salvaguardia, così congegnato, favorisce comunque gli atenei già “virtuosi” e non fornisce risorse aggiuntive a quelli in crisi – per i quali un 1% di aumento dopo un anno di tagli reali può risultare del tutto insufficiente. Le istituzioni consultive raccomandano pertanto, nel medio termine, di potenziare strutturalmente il fondo perequativo e di rivedere i criteri di salvaguardia, in modo da assicurare realmente la tenuta del sistema universitario nazionale nel suo insieme.
Finanziamenti per piani straordinari di reclutamento e ricerca
L’art. 6 del decreto riguarda i Piani straordinari di reclutamento e le attività di ricerca. Nel 2025 si registrano qui alcune variazioni di rilievo rispetto all’anno precedente. In primo luogo, vengono inserite formalmente (punto 2 dell’articolo) le risorse per la promozione dell’attività di ricerca ex art. 238 DL 34/2020 e art. 12 DL 113/2024, per un importo di €200 milioni, in linea con lo stanziamento del 2024. Questo mantiene costante l’impegno sui progetti di ricerca di particolare rilevanza. In secondo luogo, il finanziamento complessivo dei piani straordinari di reclutamento in essere (RTD, professori, personale tecnico-amministrativo) ammonta per il 2025 a circa €648 milioni. Tale cifra risulta inferiore a quella del 2024, a causa proprio del citato “spostamento e consolidamento in quota base dei piani straordinari conclusi”. In altre parole, parte dei fondi che l’anno scorso erano contabilizzati qui (ad esempio il Piano “Manfredi-Messa” RTDb 2020-2022) ora figurano nella quota base, lasciando sui piani straordinari solo le tranche di quelli ancora in corso.
Il CUN, pur prendendo atto di tale ricomposizione tecnica, ribadisce la necessità di un potenziamento ulteriore del personale strutturato universitario. Nel parere si sottolinea come sia imprescindibile reperire risorse aggiuntive per nuove politiche di reclutamento, rivolte prevalentemente alla figura del Ricercatore a Tempo Determinato Tenure-track (RTT). Ciò alla luce di due fattori convergenti: da un lato il naturale invecchiamento del corpo docente strutturato, con oltre la metà dei professori ordinari e associati sopra i 55 anni (dati 2023); dall’altro la presenza di un numero crescente di giovani ricercatori precari (dottori di ricerca con assegni, borse e contratti a termine) che ambiscono a una posizione stabile. Nel corso degli ultimi anni, grazie ai piani straordinari e al PNRR, c’è stato un certo ringiovanimento, ma insufficiente: molti progetti PNRR stanno per concludersi e gli atenei perderanno il contributo di migliaia di unità di personale temporaneo che finora hanno sostenuto attività didattiche e di ricerca. Senza un intervento straordinario, questo scenario rischia di aprire nel 2025-26 una nuova emorragia di capitale umano dagli atenei. Il CUN e il CNSU convergono quindi nell’auspicare un nuovo piano straordinario di reclutamento per giovani ricercatori, volto a stabilizzare i precari formatisi in questi anni e ad immettere nuove energie nel sistema. Su questo punto anche la FLC CGIL ha assunto una posizione molto netta, presentando un piano di allargamento degli organici che punti a stabilizzare “le decine di migliaia di precari che lavorano da anni negli atenei” ed evitare di sacrificare un’altra generazione di ricercatori. In sede di riparto 2025, tuttavia, manca un finanziamento dedicato ad eventuali nuovi piani: la legge di bilancio non ha finora previsto fondi freschi per ulteriori reclutamenti oltre a quelli già programmati (limitandosi anzi, come visto, a ridurre le previsioni del piano Messa 2022).
Interventi e vincoli per il diritto allo studio e la popolazione studentesca
Un capitolo importante del decreto riguarda le risorse destinate agli studenti e al diritto allo studio (art. 11 e art. 12 del decreto, voci A–G). Complessivamente, il FFO 2025 destina a interventi a favore degli studenti €614,4 milioni, una cifra cresciuta rispetto allo scorso anno. Il CUN valuta positivamente questo incremento, “a conferma dell’importanza di supportare le attività indirizzate alla popolazione studentesca”. All’interno di tale quadro, però, occorre distinguere le diverse voci e verificarne l’adeguatezza rispetto ai bisogni.
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Borse di dottorato (Voce A): Rimangono sostanzialmente stabili i fondi per borse di dottorato e post-lauream. Il CNSU segnala con preoccupazione una “stagnazione, rispetto all’FFO 2023” di questi finanziamenti. Sono stanziati circa €189 milioni per le borse di dottorato ordinarie, cifra che – sottolinea il CUN – andrebbe potenziata in prospettiva per aumentare l’attrattività internazionale dei nostri corsi di dottorato, specie ora che si esauriscono i fondi PNRR che avevano temporaneamente ampliato il numero di borse. Il CNSU aggiunge che è necessario compensare l’aumento del costo unitario delle borse (innalzate dal 2018 e ulteriormente dal 2022) con risorse strutturali: attualmente, infatti, l’FFO copre solo in parte il maggior costo, lasciando in capo ai bilanci degli atenei oneri crescenti. Questa esigenza diventa critica nel 2025, primo anno in cui vengono meno i finanziamenti straordinari PNRR che avevano finanziato all’incirca 16000 di borse aggiuntive nel triennio 2022-2024: senza un adeguato rafforzamento del FFO, c’è il rischio - invero già verificato da diverse sedi locali ADI - di un arretramento considerevole nel numero di dottorandi formati ogni anno e di aggravio dei costi per gli atenei (che potrebbero ridurre il numero di posti banditi).
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Orientamento, tutorato e lotta all’abbandono (Voci B e C): Anche queste voci non registrano aumenti significativi rispetto al 2023. Il CNSU parla di “cristallizzazione dei fondi” sul livello precedente e ribadisce la necessità di un intervento strutturale sulle attività di orientamento pre-universitario, sostegno didattico e tutorato. Si sottolinea l’urgenza di investire in forme di orientamento attivo e peer tutoring soprattutto all’inizio del percorso accademico, per prevenire isolamento, abbandoni e rinunce agli studi. Tali attività, si argomenta, sono strumenti essenziali per accompagnare gli studenti nella vita universitaria, rafforzando il senso di appartenenza e la continuità formativa. La stagnazione dei fondi per questi scopi viene quindi vista come un’occasione mancata: servirebbe un significativo incremento delle risorse destinate a orientamento e tutorato. Inoltre, il CNSU richiama l’attenzione sulla necessità di colmare le disuguaglianze fra atenei in termini di servizi agli studenti: oggi, atenei con meno risorse non riescono ad offrire gli stessi livelli di tutorato e supporto di quelli più dotati, accentuando differenze territoriali.
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Da notare che nel FFO 2025 prosegue il finanziamento (voce C) del Programma per l’orientamento “Rita Levi Montalcini” (introdotto dal DL 73/2021) con €8,5 milioni annui, confermati per il terzo anno consecutivo. Il CNSU apprezza la stabilizzazione di questo programma, ma ricorda che l’importo attuale è significativamente ridotto rispetto allo stanziamento originario del 2021. Pertanto, anche per l’orientamento “RLM” auspicano un rafforzamento futuro e un aggiornamento dei criteri di assegnazione, per massimizzarne l’efficacia e la copertura dei reali bisogni degli studenti (in particolare quelli con difficoltà specifiche, DSA, o provenienti da contesti fragili).
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No-tax area e sostegno al diritto allo studio (Voci D ed E): Queste voci finanziano la compensazione che lo Stato riconosce agli atenei per i mancati introiti dalle tasse universitarie dovuti agli studenti esonerati (no-tax area fino a una certa soglia ISEE). Nel 2025 tali fondi risultano stabilizzati sui livelli precedenti, senza incrementi significativi. Il CNSU ritiene insufficiente la sola stabilizzazione dei fondi per la no-tax area, evidenziando come molti atenei segnalino l’inadeguatezza delle risorse rispetto al gettito effettivamente perso a causa dell’ampliamento della platea di esonero. Si è infatti ampliata negli ultimi anni la soglia ISEE per l’esonero (attualmente €22.000, con riduzioni fino a €30.000), ma la compensazione statale non copre integralmente il mancato gettito, soprattutto negli atenei con molti studenti a basso reddito. Ne deriva un marcato squilibrio tra il mancato incasso e le somme compensative erogate dal Ministero. Il CNSU ribadisce con forza la proposta di innalzare progressivamente la soglia ISEE della no-tax area a €30.000 (già avanzata in precedenza) e, parallelamente, di rendere la compensazione statale proporzionata alle reali perdite di ciascun ateneo. Solo così si può garantire un accesso equo all’istruzione terziaria su tutto il territorio nazionale, evitando che gli atenei delle regioni più povere – con più esonerati – siano penalizzati finanziariamente. Va infatti considerato che alcuni atenei, autonomamente, hanno già elevato la soglia no-tax a 30.000€ senza adeguato supporto ministeriale: l’attuale criterio di riparto (basato sul confronto con l’ammanco dell’anno precedente) penalizza proprio quegli atenei più virtuosi che hanno ampliato le esenzioni oltre i minimi di legge. Inoltre, l’attuale meccanismo non considera il numero di nuove immatricolazioni (ovunque in calo) né l’aumento costante delle famiglie idonee alla no-tax area: in assenza di risorse aggiuntive, ciò significa che il costo delle maggiori esenzioni viene di fatto scaricato sui bilanci degli atenei, che potrebbero dover compensare riducendo servizi o aumentando le contribuzioni degli studenti non esonerati. Il CNSU sollecita dunque una revisione complessiva del sistema di compensazione, che ne garantisca la sostenibilità per tutti gli atenei – con particolare attenzione a quelli del Mezzogiorno, più esposti a squilibri nell’attuale meccanismo – e tuteli anche la fascia del ceto medio spesso esclusa dagli esoneri ma in difficoltà a sostenere i costi universitari. Viene anche messa in discussione l’adeguatezza dell’indicatore ISEE come strumento unico: pur essendo standard nazionale, l’ISEE talvolta non fotografa con precisione il reale contesto economico dello studente (es. famiglie monoreddito con più figli, affitti onerosi, patrimoni non liquidabili) e non tiene conto dei costi aggiuntivi degli studi (trasporti, alloggio, ecc.). Si suggerisce dunque di ripensare i criteri di valutazione della condizione economica per il diritto allo studio, e nel frattempo di uniformare a livello nazionale le modalità di accesso alla no-tax area, ad esempio prevedendo esenzioni ex ante automatiche invece di rimborsi ex post, che creano incertezza e disuguaglianze. Queste proposte del CNSU evidenziano come, attualmente, la politica di diritto allo studio connessa all’FFO 2025 non risponda pienamente ai bisogni reali: pur non avendo introdotto nuovi tagli rispetto al 2024, manca un adeguamento alle crescenti platee di esonerati e ai costi di inclusione degli studenti economicamente deboli.
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Servizi di supporto agli studenti (Voce F): Qui si registra purtroppo un vero taglio all’interno del FFO 2025 rispetto all’anno precedente. Le risorse per i servizi di supporto alla comunità studentesca (che includono, ad esempio, interventi per counseling psicologico, orientamento in itinere, placement, sportelli anti-violenza, ecc.) risultano inferiori di €2 milioni rispetto al 2023. Il CNSU esprime forte preoccupazione per questa riduzione, definendola “particolarmente grave” in un momento in cui aumentano i disagi degli studenti e persistono criticità nell’accesso a servizi di supporto psicologico. In un contesto di instabilità sociale, difficoltà economiche e isolamento (problemi emersi anche durante e dopo la pandemia), appare inspiegabile la scelta di ridurre proprio gli strumenti che favoriscono inclusione, benessere e partecipazione piena alla vita universitaria. Inoltre, il CNSU evidenzia che nel riparto manca un chiaro indirizzo strategico su questi interventi: i fondi sono allocati genericamente alla categoria “servizi di supporto”, senza indicazioni vincolanti su cosa attivare o potenziare. L’unico riferimento specifico è per gli sportelli antiviolenza (la cui importanza è riconosciuta, ma rappresentano solo una delle necessità). Questa impostazione, priva di vincoli, priorità e visione sistemica, è giudicata “del tutto inadeguata a rispondere alle esigenze della comunità studentesca”. Senza un quadro chiaro e risorse finalizzate, gli atenei non possono pianificare interventi strutturali e coordinati; il rischio è di vanificare il potenziale di queste azioni e di aggravare le disuguaglianze tra territori, lasciando alcune università senza mezzi per attivare servizi essenziali. Il CNSU sollecita quindi un ripensamento della distribuzione di queste risorse, in modo da rafforzare in modo esplicito e strategico il sostegno al benessere e al successo formativo degli studenti.
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Accesso ai corsi di medicina e discipline affini (Voce G): Una novità del 2025 è l’introduzione della voce G, con €30,4 milioni (potenzialmente integrabili fino a €50 milioni) destinati a finanziare attività e servizi per l’accesso ai corsi di laurea magistrale a ciclo unico in Medicina e Chirurgia, Odontoiatria e Medicina Veterinaria. Ciò è collegato alla recente riforma delle modalità di accesso a queste facoltà (superamento del numero chiuso tradizionale in favore di un percorso di formazione propedeutica, verso cui il CNSU, il CUN e le associazioni di categoria della specializzazione medica hanno espresso unanimemente dure perplessità). Il CUN valuta positivamente la presenza di questo stanziamento, giudicando coerente destinare risorse dedicate in vista dell’attuazione della nuova normativa sull’accesso a medicina. Il CNSU, dal canto suo, prende atto dei €30 milioni assegnati ma coglie l’occasione per ribadire la sua valutazione negativa unanime sul nuovo modello di accesso a medicina e affini. Il Consiglio studentesco riconosce che questo finanziamento è la necessaria conseguenza della riforma (servirà a predisporre i corsi e i servizi di orientamento/formazione per gli aspiranti medici nella fase di preselezione), ma sottolinea polemicamente che, “in assenza dell’adozione della nuova modalità di accesso, tali risorse avrebbero potuto essere allocate diversamente”, contribuendo in modo più strutturale ed efficace al miglioramento complessivo del sistema. In altre parole, il CNSU ritiene che il nuovo modello di accesso, pur avendo comportato questo esborso dedicato, non risponda alle vere priorità dell’università italiana, e quelle risorse aggiuntive sarebbe stato preferibile investirle in capitoli come il diritto allo studio o il reclutamento. È una critica di ordine politico che travalica lo specifico del FFO, ma che testimonia come anche scelte esterne (di politica degli accessi) possano avere impatto sulle allocazioni di bilancio e sulle priorità percepite.
Quadro di sintesi del riparto delle risorse ordinarie delle università per l’anno 2025
Incremento nominale dello stanziamento: Il Fondo cresce a €9,368 miliardi (+3,7%), invertendo il segno negativo del 2024 e tornando su un trend espansivo nominale. Ciò consente di attenuare le difficoltà di bilancio più urgenti e, secondo il CUN, “recupera la dinamica positiva” che si era avuta fino al 2023. Criticità: l’aumento è insufficiente a coprire inflazione e obblighi stipendiali (+5% solo nel biennio 2024/25) e rimane al di sotto delle previsioni programmatiche, lasciando il sistema sotto-finanziato rispetto al necessario (v. oltre).
Ricostituzione parziale della quota base: Viene reintegrata la quota base, riportandola intorno al 50% del FFO, con risorse consolidate utili a coprire i costi fissi crescenti (personale, energia) e dare respiro alla gestione degli atenei. Criticità: gran parte di tale crescita è fittizia (671 mln da fondi già esistenti); la base reale resta inferiore al 2023 e la continua ascesa del costo standard rischia di mettere in difficoltà atenei di zone meno avvantaggiate.
Maggiore flessibilità per gli atenei: Consolidando i fondi straordinari in base e lasciando invariati (o meno vincolati) alcuni capitoli, le università hanno più margine per decidere l’utilizzo delle risorse, specialmente sul personale. Ciò risponde alle richieste di maggiore autonomia programmatoria avanzate dai rettori, permettendo agli atenei di gestire piani di reclutamento secondo le proprie esigenze e di assorbire meglio i maggiori costi degli ultimi anni. Criticità: senza risorse aggiuntive, l’autonomia rischia di tradursi in scelte obbligate di austerità in molti atenei (blocco del turnover, tagli ai corsi meno frequentati, ecc.), perché gli spazi di bilancio restano ridotti.
Clausola di salvaguardia positiva: L’introduzione di un aumento minimo garantito (+1%) per tutti gli atenei è un segnale importante di attenzione all’equilibrio del sistema. Per la prima volta nessuna università vedrà calare il proprio FFO rispetto all’anno precedente, evitando situazioni di sofferenza acuta come quelle vissute nel 2024. Criticità: la soglia massima +6% mantiene una logica premiale anche nella perequazione; il fondo perequativo rimane minimale (1,5% del FFO) e non colma i divari strutturali, che anzi rischiano di crescere in termini relativi.
Conferma del finanziamento alla ricerca e ai piani in essere: Le risorse per progetti di ricerca (200 mln) e per i piani di eccellenza/dipartimenti (terzo anno su cinque, 271 mln) sono garantite, così come quelle per il Piano straordinario ricercatori 2024 (DM 795/2023). Inoltre, prosegue il finanziamento per il programma giovani ricercatori “Rita Levi Montalcini” (8,5 mln). Criticità: manca un nuovo piano straordinario per il reclutamento di giovani ricercatori (RTT), nonostante l’evidente fabbisogno; i finanziamenti ai piani straordinari calano nel complesso rispetto al 2024 e soprattutto non compensano la fine imminente dei contratti PNRR, che rischia di espellere migliaia di precari qualificati dal sistema.
Attenzione ai servizi agli studenti (in apparenza): Il FFO 2025 nel suo complesso stanzia un importo maggiore per gli interventi verso gli studenti (614 mln vs 598 mln circa del 2024). In particolare, vengono confermate misure per orientamento e tutorato e introdotto un nuovo fondo per facilitare l’accesso a Medicina e discipline affini. Criticità: gran parte delle voci restano ferme ai livelli 2023, senza aumenti nonostante l’incremento dei bisogni (più esoneri tasse, più necessità di supporto psicologico, ecc.). Si registra anzi un taglio sui servizi di supporto (-€2 mln) proprio in una fase di crescente disagio studentesco. I fondi no-tax area non aumentano e quindi diluiscono la copertura pro-capite con l’ampliarsi della platea di esenti. Manca una strategia chiara di potenziamento del diritto allo studio: la spesa rimane impostata su valori storici che già in passato erano giudicati insufficienti, lasciando problemi cronici (es. insufficienti borse di studio statali, carenza di posti alloggio, ecc.) da affrontare con risorse extra-FFO o con fondi PNRR destinati ad esaurirsi.
In conclusione, il DM FFO 2025 presenta alcuni elementi apprezzabili di mitigazione degli effetti negativi del 2024 (ripristino parziale di fondi, salvaguardia minima, flessibilità gestionale) e conferma i trend di investimento su ricerca e merito secondo il disegno di legge vigente. Tuttavia, non introduce correzioni sostanziali alle criticità di fondo: il finanziamento rimane al di sotto del fabbisogno e delle promesse pluriennali, la struttura di riparto continua a privilegiare logiche competitive e premiali senza adeguati contrappesi, e gli interventi perequativi e di sostegno agli studenti restano modesti. Il Consiglio Nazionale degli Studenti, nel suo parere finale, sintetizza bene questa valutazione affermando che “l’impianto del provvedimento si conferma nel segno della continuità con le criticità già emerse negli anni precedenti, senza introdurre elementi di revisione sostanziale” e che, nonostante la crescita nominale, “non si tratta di un rafforzamento effettivo del finanziamento pubblico” ma di un riassetto contabile che lascia le risorse sotto il livello previsto. Per questo motivo il CNSU ha espresso un parere contrario allo schema di decreto 2025, auspicando un’accoglienza delle osservazioni per future correzioni. Il CUN, più istituzionale, pur riconoscendo i limiti imposti dalle normative vigenti, ha formulato un parere complessivamente favorevole sui criteri di riparto 2025, confidando che la dinamica di crescita delle risorse avviata quest’anno prosegua in futuro e rendendosi disponibile a contribuire alla revisione del modello di finanziamento.
Entrambi i pareri convergono comunque su un punto sostanziale: serve un ripensamento del modello di finanziamento e un investimento più deciso per garantire al sistema universitario italiano di raggiungere gli obiettivi strategici di ricerca e didattica di qualità in modo sostenibile. Nella sezione successiva analizziamo proprio il rapporto tra l’FFO 2025, i fabbisogni reali del sistema e gli obiettivi di lungo periodo, per poi formulare proposte di policy coerenti con tale visione.
L’FFO 2025 di fronte ai fabbisogni del sistema universitario e agli obiettivi di lungo periodo
Una domanda cruciale da porsi è: il livello e la struttura del FFO 2025 sono adeguati a sostenere il sistema universitario italiano verso gli obiettivi di competitività scientifica, qualità didattica e inclusione sociale che esso si prefigge? Dall’analisi condotta emergono serie preoccupazioni al riguardo. In questa sezione mettiamo in relazione l’FFO 2025 con i bisogni effettivi del sistema e con i target di sviluppo di medio-lungo termine, evidenziando le principali aree di scostamento.
Sottofinanziamento cronico e divario con l’Europa
Il primo dato da sottolineare è che l’università italiana soffre di un sottofinanziamento cronico rispetto ai principali Paesi avanzati. Nonostante l’aumento nominale del FFO negli ultimi anni, le “risorse consolidate oggi destinate a università e ricerca restano ancora inferiori alla media europea” – come riconosce espressamente il CUN – e non garantiscono di coprire le esigenze del sistema, tenuto conto sia dell’inflazione sia degli obblighi contrattuali crescenti. In termini comparativi, l’Italia investe nell’istruzione universitaria una quota del PIL nettamente inferiore a quella di Francia, Germania, Regno Unito o Spagna, e la spesa pubblica per studente risulta tra le più basse dell’Europa occidentale. Questo divario di investimento si riflette in molteplici indicatori di outcome: ad esempio, la percentuale di popolazione con titolo terziario in Italia è circa il 30% nella fascia 25–34 anni, mentre la media UE si avvicina al 50%. In altri termini, nonostante qualche progresso, l’Italia non ha colmato lo storico gap di laureati rispetto agli obiettivi di Lisbona 2020, perché altri Paesi hanno avanzato più rapidamente sullo sfondo di investimenti più robusti.
L'evoluzione del finanziamento reale del sistema universitario negli ultimi 20 anni spiega in parte questa situazione. Come ricostruito dalla FLC CGIL, l’FFO (considerata l’inflazione) ha subìto un tracollo tra il 2010 e il 2015 (perdendo quasi il 20% del valore), per poi risalire lentamente fino al 2021, tornando appena ai livelli del 2007/08. Dopo il 2021 è di nuovo diminuito in termini reali, sia per il ritorno dell’inflazione sia per i tagli nominali del 2024. Ancora nel 2025, le risorse reali risultano inferiori del 5% rispetto al 2021 e sono praticamente identiche a quelle di inizio anni Duemila. Ciò significa che l’università pubblica italiana ha attraversato due decenni senza un’espansione reale del finanziamento: i finanziamenti attuali, in potere d’acquisto, equivalgono a quelli di oltre 20 anni fa, pur dovendo oggi servire un sistema più complesso (basti pensare alle maggiori funzioni di terza missione) e con costi del personale maggiori. Questo dato è drammatico se confrontato con l’andamento di altri Paesi: ad esempio la Germania, nello stesso periodo, ha aumentato consistentemente i fondi universitari (federali e regionali) e l’organico docente attraverso iniziative come l’Excellence Initiative; la Francia ha lanciato piani di investimento straordinario nell’università (Programme d’Investissements d’Avenir); la Spagna, dopo la crisi, è tornata a crescere negli stanziamenti per l’istruzione superiore. L’Italia invece ha affrontato lunghi anni di tagli (soprattutto nel decennio 2008–2018) e solo parzialmente compensati in seguito.
Il divario con l’Europa si manifesta anche nel rapporto tra finanziamenti e fabbisogni reali. Il CUN evidenzia che le risorse attuali “non garantiscono la copertura delle esigenze economico-finanziarie del sistema universitario”, considerate le dinamiche inflazionistiche e la necessità di reclutare giovani ricercatori. In pratica, l’FFO 2025 – pur in aumento – non basta: molte università faticano a chiudere i bilanci senza intaccare investimenti o qualità. Lo si è visto con le misure d’emergenza adottate per il 2024 (congelamento delle assunzioni in alcuni atenei, riduzione dei corsi, tagli ai fondi dipartimentali) e con gli allarmi lanciati da CRUI e CUN l’anno scorso sulla “sopravvivenza” di alcuni atenei in caso di ulteriori tagli. La situazione migliora solo marginalmente nel 2025: gli atenei rimangono in una condizione di “lungo inverno” finanziario, per citare la metafora usata dalla FLC CGIL, in cui l’incremento nominale del Fondo non si traduce in reali capacità espansive.
Le conseguenze di questo sottofinanziamento si riverberano sulle prospettive di competitività scientifica del Paese. Meno risorse pubbliche significano meno opportunità di sviluppo di infrastrutture di ricerca, laboratori, assunzione, partecipazione a progetti internazionali. Significano carichi didattici più alti per i docenti (per via di organici ridotti), con minore tempo da dedicare alla ricerca di qualità. Il CNSU nota che l’attuale distribuzione delle risorse finisce per concentrare finanziamenti in pochi poli “attrattivi” e indebolire la qualità della ricerca negli altri atenei, generando un circolo vizioso di disuguaglianza accademica. Se questa tendenza non viene contrastata, è difficile pensare che l’Italia possa migliorare significativamente il suo posizionamento nei ranking internazionali, attrarre cervelli dall’estero o trattenere i propri (il cosiddetto brain drain continua ad essere alimentato anche dalle minori possibilità di carriera e finanziamento della ricerca in patria).
Va poi considerato l’effetto PNRR: il Piano ha portato, tra 2022 e 2024, finanziamenti eccezionali a università ed enti di ricerca, con bandi per progetti e contratti temporanei. Tali fondi, però, sono one-off e andranno esauriti entro il 2026. Se l’FFO ordinario non cresce in parallelo, vi sarà un effetto “scalone”: terminati i progetti PNRR (e dunque i relativi assegni di ricerca, borse aggiuntive, ecc.), senza subentri di finanziamenti nazionali permanenti, il sistema subirà un arretramento netto. Ad esempio, migliaia di dottorandi e assegnisti PNRR giunti a conclusione non troveranno posizioni aperte negli atenei; molti laboratori allestiti con quei fondi rischiano di fermarsi per mancanza di finanziamenti di prosecuzione. Il DEF 2024 stima che le riforme e gli investimenti del PNRR in istruzione e ricerca possano avere un effetto positivo sul PIL di +0,8% al 2030 e +2,8% al 2050, ma ciò presuppone che le iniziative avviate vengano sostenute e non disperse. Se, viceversa, alla fine del PNRR si torna al “business as usual” dei finanziamenti insufficienti, quell’effetto potenziale rischia di non concretizzarsi. In questo senso, l’FFO 2025 – che non contempla risorse per stabilizzare il personale PNRR uscente né per proseguire le azioni di sistema – appare disallineato rispetto alla necessità di capitalizzare gli investimenti del Piano. La struttura del riparto 2025 non tiene conto adeguatamente né dell’impatto dell’inflazione né della cessazione dei finanziamenti eccezionali del PNRR, presentando anzi tagli rispetto al 2023 su voci cruciali (inclusione, benessere, tutorato, valorizzazione della ricerca). Ciò restituisce l’immagine di un sistema statico e disallineato dalle reali necessità degli atenei e degli studenti.
Qualità della didattica e ampiezza dell’offerta formativa
Un’università adeguatamente finanziata non serve solo a fare ricerca: serve anche a garantire una didattica di qualità su tutto il territorio nazionale e un’offerta formativa ampia e rispondente ai bisogni della società. Il sottofinanziamento incide direttamente su questo fronte. Con risorse limitate e organici bloccati, molti atenei hanno dovuto ridurre o accorpare corsi di laurea, aumentare il numero di studenti per docente, e rinunciare a innovazioni didattiche costose. Già nel 2010-2015, durante i tagli, si assistette a un calo del numero di corsi di studio attivati e a un peggioramento dei rapporti docenti/studenti. Oggi, l’Italia continua ad avere uno dei peggiori student-staff ratio in Europa occidentale. La capacità di seguire individualmente gli studenti, di offrire tutorati efficaci, di svolgere laboratori in piccoli gruppi è compromessa in molti contesti. Questo impatta sia sulla qualità percepita dell’esperienza formativa, sia sugli esiti accademici (es. tassi di ritardo e abbandono). Non a caso, come ricordato dalla FLC, “il tasso di passaggio dalla scuola superiore all’università negli ultimi quindici anni è… diminuito” in Italia, e solo di recente vi è stata una lieve ripresa degli immatricolati (dovuta in buona parte alle università telematiche, che da sole hanno assorbito oltre il 70% dei nuovi iscritti negli ultimi anni). Questo dato suggerisce che l’università “in presenza” tradizionale fatica ad attrarre nuovi studenti, specialmente in alcune aree, probabilmente per una combinazione di fattori: costi elevati, mancanza di servizi, percezione di scarso supporto didattico, scarse prospettive post-laurea. Tutti elementi che, direttamente o indirettamente, rimandano anche alle risorse a disposizione.
Il diritto allo studio è un altro pilastro della qualità e dell’inclusione. Un sistema può definirsi di qualità solo se consente ai capaci e meritevoli, ancorché privi di mezzi, di raggiungere i gradi più alti degli studi. Su questo fronte, l’Italia arranca: le borse di studio statali (FIS) storicamente coprono solo una parte degli idonei, anche se il PNRR ha migliorato la situazione; gli alloggi per studenti sono molto inferiori alla domanda; e – come visto – il meccanismo di no-tax area, pur apprezzabile, non viene finanziato a sufficienza per non danneggiare gli atenei. Il risultato è che frequentare l’università, per chi proviene da una famiglia a medio-basso reddito, rimane oneroso e in alcuni casi proibitivo, specie se non si rientra nei parametri di esonero totale. Questo fattore economico contribuisce ai bassi tassi di accesso universitario, in particolare nel Mezzogiorno. L’FFO 2025 non apporta soluzioni incisive: non aumenta la compensazione per le no-tax area, né prevede fondi per ampliare significativamente i servizi (se non quelli finanziati a parte dal PNRR, come il piano alloggi). Anzi, il taglio sui servizi di supporto (voce F) va nel senso opposto, riducendo i fondi per counseling e placement proprio quando l’attenzione al benessere studentesco dovrebbe essere massima (anche in risposta a fenomeni preoccupanti di malessere e isolamento, acuiti dalla pandemia).
Va notato che investire sul diritto allo studio e sui servizi agli studenti non è un elemento “di lusso”, ma è strettamente connesso alla performance complessiva del sistema: uno studente sostenuto adeguatamente è più propenso a laurearsi nei tempi e con profitto, a dedicarsi interamente alla formazione (senza dover lavorare troppo per mantenersi), a partecipare alla vita accademica in modo proficuo. Ciò produce laureati migliori, riduce gli abbandoni, aumenta il bacino di potenziali ricercatori futuri. In ultima analisi, un miglioramento del capitale umano. Il Programma Nazionale di Riforma allegato al DEF 2024 attribuisce esplicitamente un ruolo alle misure su diritto allo studio, alloggi e supporto psicologico nel contrastare l’abbandono e migliorare il capitale umano. Sono investimenti che generano ritorni sociali ed economici. Eppure, la Nota Integrativa alla manovra 2025 ci dice che sì, qualcosa si è fatto (aumento FIS, fondo “Erasmus italiano”, programmi psicologici per studenti, finanziamenti per posti letto PNRR), ma lo stesso CNSU osserva che queste misure nazionali rimangono inadeguate nel complesso se poi, nella distribuzione FFO, non si destinano risorse congrue a compensare e sostenere gli atenei che promuovono inclusione. In sintesi, l’FFO 2025 non colma il divario tra le ambizioni di inclusione e le risorse allocate a tal fine.
Impatto sul reclutamento di giovani ricercatori e personale
Una delle sfide di lungo periodo, centrali nell’azione rivendicativa dell’ADI, è il ricambio generazionale e l’ampliamento della platea di ricercatori e docenti. Come già ricordato, l’età media dei professori è elevata (oltre 51% sopra i 55 anni) e vi è un grande serbatoio di giovani con PhD e post-doc precari. Per aumentare la competitività scientifica e la qualità didattica, servirebbe inglobare stabilmente molti di questi giovani nel corpo docente, ridurre il rapporto studenti/docenti e internazionalizzare i dipartimenti. L’FFO 2019-2025 ha visto alcuni interventi positivi, come i piani straordinari RTDb del 2020-22 (piano Manfredi) e del 2023-24 (piano Messa), che hanno finanziato migliaia di posizioni tenure-track. Tuttavia, come abbiamo visto, i fondi di quei piani sono stati prima ridotti rispetto alle attese (50 milioni per il 2024 e 2025 del piano Messa cancellati) e poi assorbiti nella base (2025) senza essere rifinanziati, subendo un sostanziale dirottamento rispetto alle loro finalità originarie. Ciò significa che non ci sono risorse aggiuntive dedicate per proseguire il reclutamento straordinario oltre quelle già messe a disposizione fino al 2024. Un segnale allarmante, perché nel frattempo sta per concludersi la “coda lunga” del PNRR: decine di migliaia di assegni stanno scadendo o scadranno entro il 2025. Senza nuovi bandi, queste persone – formate e spesso con risultati scientifici ottimi – dovranno lasciare l’università. Non solo: il decreto “PA bis” del 2023 ha escluso la possibilità di prorogare oltre 36 mesi gli assegni PNRR, forzando dunque la loro uscita al termine. Il rischio concreto è l’espulsione di massa dei precari PNRR nel 2024-26, proprio mentre sarebbe necessario stabilizzarne almeno una parte per rafforzare gli organici. Il governo, invece di stanziare risorse per stabilizzazioni, ha puntato – come visto – su proposte di nuovi contratti flessibili (DDL 1240, L. 79/2025) e su un freno al turn-over (75%).
L’FFO 2025, così com’è, incide negativamente sul reclutamento non tanto per qualcosa che fa, ma per quello che non fa: non fornisce il carburante per nuove assunzioni oltre a quelle finanziate con i budget esistenti. Alcuni atenei, a causa dei vincoli di spesa, hanno già preannunciato che continueranno a sospendere i concorsi in sostituzione del personale in uscita anche nel 2025. Soprattutto gli atenei più piccoli o con bilanci fragili si trovano di fronte al dilemma se utilizzare l’aumento dell’FFO per coprire i costi fissi (stipendi adeguati ai nuovi contratti) oppure avviare nuove chiamate: spesso non c’è margine per entrambe le cose. Questo è in aperto contrasto con l’esigenza strategica nazionale di aumentare il numero di docenti e ricercatori. L’Italia, infatti, ha uno dei rapporti più bassi di personale accademico per studente e per abitante in area OCSE. Inoltre, come ribadito dal CUN, occorre “in prospettiva un ulteriore potenziamento del personale strutturato” in vista anche dei pensionamenti in arrivo. Senza un piano straordinario di ricambio generazionale, si rischia una riduzione netta del personale nei prossimi 5-10 anni, con danni alla competitività scientifica e alla continuità didattica.
L’FFO 2025 non risponde ai bisogni di reclutamento di lungo periodo. Esso permette a malapena di mantenere il personale attuale (grazie anche alle limitazioni al turnover) ma non consente quell’“iniezione di giovani ricercatori” di cui il sistema ha bisogno per crescere di dimensione e qualità. Ricordiamo che gli obiettivi europei (e del PNRR stesso) prevedevano di aumentare il numero di ricercatori in Italia (ad esempio, la Strategia Europea per l’Università punta ad ampliare la forza accademica per competere con Cina e USA). L’Italia ha circa 10 ricercatori (considerando universitari ed enti) ogni 1000 occupati, contro i 15 della Francia e oltre 17 della Germania. Senza un salto dimensionale, questo gap resterà. L’inclusione dei precari qualificati nel ruolo attivo dell’accademia italiana è quindi una questione non solo di giustizia per i singoli, ma di interesse nazionale. Su questo punto il mondo sindacale e associativo (come l’ADI) deve unitariamente insistere: servono misure di stabilizzazione delle decine di migliaia di precari e un piano di allargamento degli organici che riporti l’Italia in linea con gli altri grandi Paesi europei in termini di rapporto docenti/studenti e ricercatori/popolazione. L’FFO è lo strumento principale per finanziare i posti stabili, e se non cresce adeguatamente, ogni promessa di nuove posizioni rimane sulla carta.
Inclusione sociale e coesione territoriale
Un altro obiettivo di fondo del sistema universitario è contribuire all’inclusione sociale e alla riduzione dei divari territoriali, offrendo opportunità formative e di mobilità sociale in tutto il Paese. Da questo punto di vista, come rilevato, l’FFO 2025 mostra debolezze: la limitata perequazione e i criteri premiali tendono a concentrare risorse dove c’è già vantaggio, lasciando le università di aree svantaggiate con meno mezzi per invertire la rotta. La stessa quota di perequazione, “limitata al 1,5% del FFO”, è lontana dal poter colmare i gap tra Nord e Sud. Ciò significa che gli atenei del Mezzogiorno (in media con studenti di reddito più basso, infrastrutture più deboli, contesti economici difficili) continuano a ricevere una quota pro capite inferiore rispetto ad atenei di aree forti. Questo incide sulla capacità di attrarre docenti, di offrire servizi, di attivare corsi innovativi, perpetuando un circolo vizioso: meno risorse, minor appeal per studenti e altri profili d’avanguardia, performance più basse, meno risorse.
Un’adeguata politica di finanziamento dovrebbe invece “garantire pari opportunità a livello nazionale” agli studenti, come ricorda il CNSU. Invece, la situazione attuale vede – citiamo ancora il CNSU – “un marcato squilibrio tra il gettito effettivo degli studenti paganti e le somme compensate dallo Stato” a favore degli atenei con molti esoneri, con la conseguenza che alcuni atenei meridionali devono attingere a risorse proprie per coprire le esenzioni, sottraendole magari ad altri servizi. Inoltre, non tenendo conto del calo delle nuove immatricolazioni in alcune zone (legato anche alla crisi demografica), il modello di riparto rischia di penalizzare ulteriormente chi perde studenti, pur essendo quella perdita un problema di sistema (meno giovani che accedono all’università) e non certo colpa dell’ateneo.
In prospettiva, se l’Italia vuole davvero aumentare il numero di laureati e colmare i divari interni, deve investire di più e meglio nei territori svantaggiati: ciò significa potenziare la quota base per quegli atenei in difficoltà finanziaria, sostenere con fondi aggiuntivi chi attrae studenti da contesti fragili, finanziare piani di sviluppo e rinnovamento nelle università del Sud (laboratori, studentati, centri di orientamento). Il PNRR prevede alcune misure in tal senso (es. gli “Ecosistemi dell’innovazione” in regioni del Sud, borse aggiuntive vincolate a certe università), ma l’FFO rimane il canale ordinario per equilibrare i livelli essenziali. Il giudizio degli organi consultivi è che, allo stato attuale, l’FFO 2025 non è adeguato a questa missione perequativa: serve un cambio di paradigma, con più risorse e un modello più redistributivo.
Possiamo affermare che l’FFO 2025, nelle condizioni date, appare insufficiente rispetto ai fabbisogni strategici del sistema universitario italiano. Pur segnando un’inversione di tendenza nominale rispetto al taglio del 2024, non mette l’università nelle condizioni di contribuire pienamente agli obiettivi di lungo periodo di crescita e innovazione del Paese. Al contrario, risultano evidenti scostamenti negativi: mancano risorse per raggiungere gli standard europei di finanziamento; mancano interventi per rafforzare davvero la didattica e ampliare l’accesso; mancano piani per assumere la nuova generazione di studiosi necessari al ricambio e all’aumento della competitività scientifica. Le implicazioni per le componenti più deboli – i precari della ricerca e della docenza, i dottorandi, gli studenti meno abbienti – sono preoccupanti, come dettaglieremo, perché il peso dell’austerità si scarica spesso su di loro (posti di lavoro mancati, borse in meno, tasse più alte o servizi più scarsi).
Implicazioni per precari della ricerca e della docenza, RTD, dottorandi e diritto allo studio
Le scelte di finanziamento pubblico non sono mai neutrali: incidono direttamente sulle persone che vivono e fanno funzionare l’università. Di seguito analizziamo le implicazioni specifiche che l’FFO 2025 e il quadro che lo accompagna hanno per alcune categorie chiave: precari della ricerca e della didattica (ricercatori a tempo determinato, assegnisti, contrattisti), dottorandi, e infine per le politiche del diritto allo studio rivolte agli studenti. Si tratta delle componenti più vulnerabili e al contempo cruciali per il futuro del sistema, e dunque quelle da tenere maggiormente in considerazione in un’ottica di policy.
I ricercatori e i docenti precari: l’inverno è arrivato
Come descritto, il sistema universitario italiano si regge da anni grazie al contributo determinante di una vasta area di personale non strutturato: ricercatori a tempo determinato (RTD-A e RTD-B), assegnisti di ricerca, borsisti, docenti a contratto. Queste figure svolgono attività di ricerca e spesso anche di didattica, supplendo alla carenza di organico stabile, ma lo fanno con contratti temporanei e prospettive incerte. L’ammontare di questa “forza lavoro accademica ombra” è imponente: oltre 25.000 assegnisti e 10.000 RTD-A sono entrati nei ranghi negli ultimi anni, molti grazie ai fondi PNRR, e a cui si aggiungono le decine di migliaia di dottorandi e altre figure non meglio tipizzate (borsisti, co-co-co, CEL, docenti a contratto, cultori della materia). Per queste persone, l’orizzonte naturale sarebbe un percorso di stabilizzazione nel ruolo di ricercatore o professore, una volta maturati titoli ed esperienza. Tuttavia, la stretta finanziaria infrange con brutalità queste aspettative e rischia di disperdere queste competenze, a detrimento sia degli individui che del sistema.
L’FFO 2025, non prevedendo finanziamenti per piani straordinari nuovi, mostra che non ci sarà un’assunzione pubblica in ruolo per la gran parte dei precari in scadenza e per quelli già scaduti. Anche i migliori, gli “abilitati” di cui è stato lamentato dal MUR sguaitamente e irresponsabilmente il “diritto alla chiamata” nella relazione tecnica allegata al DDL 1518 sull’Abilitazione Scientifica Nazionale, se non trovano spazi nei punti organico ordinari degli atenei, saranno costretti a cercare altrove (spesso all’estero, alimentando la fuga di cervelli). Il mancato rinnovo dei fondi “Piano Messa” (340 mln nel 2024 e 50 mln nel 2025 soppressi) si traduce esattamente in centinaia di RTD e professori associati in meno che avrebbero potuto essere assunti e non lo saranno. In più, come evidenziato, il governo ha imposto un turnover limitato al 75% nel 2024 (poi posticipato), riducendo il normale ricambio. La FLC CGIL osserva con allarme che questa politica porterà gli atenei a “contenere gli organici” e che “il governo ha dato una mano prevedendo un turnover al 75% e l’espulsione di massa dei precari PNRR”. Parole forti, che delineano però una realtà: i primi a pagare il sottofinanziamento sono i giovani ricercatori precari, i quali vedono sfumare la possibilità di una posizione stabile perché le università devono fare economia.
Questa situazione genera - o dovrebbe generare con maggiore forza - mobilitazione e disagio tra i diretti interessati. Nel 2023-25 si sono moltiplicate le iniziative di protesta: assemblee con adesioni di massa (es. “Assemblea 90%” alla Sapienza di Roma), Stati di agitazione universitaria, assemblee del precariato universitario disorganizzato, fino allo sciopero nazionale dei lavoratori precari dell’università (il 12 maggio 2025). Al centro delle rivendicazioni c’è la richiesta di stabilizzazione e di dignità del lavoro di ricerca e didattica. L’ADI – l’Associazione Dottorandi e Dottori di Ricerca – è tra i soggetti più attivi nel denunciare questa piaga e nel proporre soluzioni.
La proposta della FLC CGIL di varare un piano straordinario di reclutamento per stabilizzare le decine di migliaia di precari, evitando di perdere un’intera generazione di ricercatori formati, risulta imprescindibile nella sua attuazione. Tale piano andrebbe finanziato con risorse aggiuntive, riallineando la spesa universitaria italiana a quella dei partner europei (tema su cui torneremo nelle proposte). Finché un simile intervento non verrà attuato, il rischio concreto è la diaspora dei giovani accademici: molti lasceranno il settore pubblico (per industrie, estero, o abbandonando la ricerca), con conseguenze negative sul ricambio dei saperi nel Paese.
Oltre al danno personale nelle vite di ciascuno di questi precari, come documentato dalla XII Indagine ADI sul post-doc, la fuoriuscita dei precari comporta anche una perdita per gli studenti: molto spesso sono assegnisti e giovani ricercatori a seguire più da vicino gli studenti, a far da tutor nei laboratori, a portare innovazione didattica. Non solo: per far fronte alla carenza di organico, proliferano figure come i docenti a contratto pagati a cottimo o addirittura il ricorso a docenze a titolo gratuito (fenomeno denunciato in varie occasioni). È emblematico che la FLC parli di “moltiplicazione di docenze gratuite” come conseguenza della stretta finanziaria. Ciò è evidentemente inaccettabile in un sistema sano: l’insegnamento universitario dovrebbe essere svolto da personale adeguatamente reclutato e remunerato. Laddove invece i bilanci non permettono assunzioni, si ricorre a soluzioni-tampone che però svalutano il lavoro accademico e ne compromettono la qualità.
L’impatto dell’FFO 2025 sui precari è quello di una sostanziale conferma dello status quo del precariato scientifico, se non di un peggioramento. Qui scientifico va inteso nel doppio senso di precariato nel mondo della scienza (dura, umanistica, sociale), ma pure di volontà deliberata di attuare, tramite dispositivi precari, il controllo sulle vite e sul lavoro di decine di migliaia di lavoratori. Non aumentando i posti disponibili e non stabilizzando i fondi straordinari, l’FFO lascia intendere che molti contratti non saranno rinnovati. Al contempo, alcune misure legislative recenti (come i limiti alla durata massima dei contratti temporanei) faranno scadere quei rapporti senza possibilità di proroga. Si crea così una “trappola” per i ricercatori: escono dal percorso di formazione/lavoro alla ricerca (dottorato) e trovano solo contratti a termine, e quando questi finiscono – se non sono riusciti a entrare nei pochi posti di RTD o associato banditi – restano fuori dal sistema. Questo non è solo ingiusto per chi ha investito anni di studio e ricerca, ma è antieconomico per il Paese, che dopo aver formato quei talenti non ne trae beneficio sul lungo periodo, proprio quando potrebbero essere produttivi per il Paese.
I dottorandi, il futuro della ricerca e una indicibile verità sulla “caratterizzazione industriale”.
I dottorandi di ricerca rappresentano il primissimo gradino della carriera accademica e più in generale sono giovani ad alto potenziale innovativo. Negli ultimi anni, grazie al PNRR, c’è stato un forte incremento di borse di dottorato (basti pensare ai dottorati “innovativi” cofinanziati o a tematica PNRR): si è arrivati a bandire ben oltre le 15.000 borse annue, quasi raddoppiando i numeri precedenti. Il PNRR inoltre ha innalzato significativamente l’importo delle borse, portandolo a circa €1.200 netti mensili, avvicinandolo alla media europea. Sono stati segnali importanti traguardi per la valorizzazione quantitativa del dottorato. Tuttavia, queste conquiste rischiano di essere effimere se il finanziamento ordinario non le sostiene nel tempo. Già dal 2025, senza nuovi fondi PNRR, il numero di borse potrebbe ridursi di nuovo, a meno di interventi ministeriali. L’FFO 2025, come visto, destina €189 milioni alle borse di dottorato ordinarie, un importo che copre il livello consolidato ma non prevede aumenti. Questo implica che eventuali borse aggiuntive dovranno trovare copertura altrove (regioni, fondi di ateneo, etc.) oppure non ci saranno. Inoltre, come osservato dal CNSU, l’aumento del costo unitario delle borse non è compensato interamente dallo Stato: i circa 1200 euro mensili netti introdotti nel 2022 hanno aumentato di ~€6.000 annui il costo lordo di ogni borsa, ma il MUR ha integrato i budget atenei solo in parte, lasciando molte università con oneri aggiuntivi. Nel 2025, primo anno post-PNRR, gli atenei si troveranno a sostenere integralmente tutte le borse di dottorato con risorse proprie per la parte eccedente il vecchio importo. Alcuni atenei, specie piccoli e nelle aree interne, potrebbero ridurre il numero di posti di dottorato offerti per ragioni di bilancio, vanificando i progressi quantitativi fatti.
Questo scenario è preoccupante perché i dottorandi sono la linfa della ricerca futura: meno dottorandi oggi significano meno innovazione domani, meno docenti validi dopodomani. L’ADI ha più volte chiesto un piano di finanziamento pluriennale per aumentare stabilmente numero e entità delle borse di dottorato, fino a raggiungere standard europei (in proporzione alla popolazione, l’Italia conferisce ancora pochi titoli di dottorato di ricerca). Anche qui, l’FFO 2025 non va in quella direzione, restando ancorato al dato storico. In prospettiva, servirebbe stanziare più fondi dedicati (ad esempio portando progressivamente a 250+ milioni la voce borse di dottorato) per far sì che l’impulso PNRR non si traduca in un picco isolato ma in un nuovo trend.
Un altro aspetto: i dottorandi beneficiano indirettamente di molti servizi (alloggi, mense, mobilità internazionale, formazione complementare) che dipendono dai fondi di ateneo. Se i bilanci sono stretti, queste attività di supporto vengono sacrificate. Un FFO più generoso aiuterebbe anche a costruire un ambiente migliore per i giovani ricercatori: ad esempio, potrebbe finanziare programmi di supporto psicologico, scuole estive, corsi interdisciplinari, ecc. Al momento, tali iniziative sono lasciate alla buona volontà dei singoli atenei (o di progetti specifici). Non c’è un capitolo dedicato nell’FFO a valorizzare i dottorati in modo sistemico.
Inoltre, la transizione post-dottorato rimane critica: un dottore di ricerca, finita la borsa, spesso si ritrova disoccupato o ad accettare piccoli assegni sperando in concorsi futuri. Una politica lungimirante prevederebbe l’utilizzo di fondi FFO per creare posizioni entry-level più stabili (ad esempio ricercatori di tipo “tenure-track” in numero sufficiente). L’istituzione del nuovo ruolo di RTT prevista dalla riforma 2022 doveva servire a questo: immettere i neo-dottori in un percorso in tenure di 5-6 anni. Ma se mancano i posti finanziati, la riforma resta lettera morta. Il CUN stesso “segnala la necessità di reperire risorse aggiuntive” per promuovere nuove politiche di reclutamento rivolte prevalentemente a RTT. Dunque i dottorandi di oggi guardano al domani e vedono poche opportunità in Italia. Questo è un deterrente anche per i migliori laureati nel considerare il dottorato: perché intraprendere un PhD se poi le prospettive sono così incerte? Il pericolo è un circolo vizioso di disincentivo al percorso accademico, proprio mentre tutti concordano che servirebbero più dottori di ricerca per il sistema produttivo e accademico nazionale.
Ma qui emerge anche un’indicibile verità: i richiami ricorrenti alla “caratterizzazione industriale” del dottorato rischiano di essere meri artifici retorici se non si guarda con onestà alla condizione del tessuto economico nazionale. Non si tratta soltanto di stabilire (se e) quale rapporto debba legare l’accademia con l’industria e i servizi, ma di riconoscere che l’Italia degli ultimi vent’anni ha conosciuto una progressiva de-industrializzazione e una terziarizzazione a basso valore aggiunto. In un’economia che vede nel turismo una sorta di “nuovo petrolio”, il legame tra ricerca avanzata e mondo produttivo si spezza, perché mancano proprio i settori ad alta intensità di conoscenza - non solo i tanto richiamati STEM, ma pure humanities and social sciences - capaci di assorbire dottori di ricerca. In questo contesto, l’idea di un dottorato “industriale” si trasforma nel contenitore vuoto per sgravi fiscali mascherati: l’industria non c’è, e laddove resta è spesso marginalizzata rispetto alle dinamiche globali. Una politica seria dovrebbe allora partire da questa consapevolezza, intrecciando piani industriali, politiche di ricerca e strategie occupazionali, invece di coltivare illusioni che alimentano soltanto frustrazione e disillusione fra i giovani ricercatori.
Gli studenti e il diritto allo studio: inclusione a rischio
Abbiamo già esaminato in dettaglio come le politiche per gli studenti (no-tax area, borse, servizi) non siano state potenziate nell’FFO 2025. Qui ci preme sottolineare le implicazioni sociali di tale scelta. L’Italia è uno dei Paesi europei in cui l’origine socio-economica influisce maggiormente sulla probabilità di accesso e successo negli studi universitari. I dati del rapporto OECD Education at a Glance mostrano che i tassi di ingresso all’università e di completamento sono molto più bassi per i giovani da famiglie meno istruite o meno abbienti. Le regioni del Sud, con redditi medi inferiori, registrano tradizionalmente tassi di passaggio all’università minori e maggior dispersione. In teoria, un robusto sistema di diritto allo studio dovrebbe compensare queste disparità, fornendo borse, alloggi e esenzioni tali da mettere tutti in condizione di studiare. In pratica, come osserva il CNSU, attualmente “numerosi atenei evidenziano l’inadeguatezza delle risorse rispetto al gettito perso a causa dell’ampliamento della platea di esonero”. Ciò significa che alcuni atenei non riescono più a reggere l’onere della no-tax area senza tagliare altrove, e questo altrove spesso sono i servizi agli studenti stessi. È un serpente che si morde la coda: per rendere gratuita l’iscrizione a molti (cosa giusta), le università finiscono per ridurre la qualità dell’esperienza formativa (meno servizi di tutorato, aule sovraffollate perché non possono permettersi di assumere più docenti, ecc.), peggiorando la situazione per tutti.
Se l’FFO coprisse integralmente le esenzioni e anzi aumentasse gli stanziamenti per il diritto allo studio, invece, si potrebbe immaginare di alzare la no-tax area a 30.000€ (come proposto dal CNSU), includendo così gran parte del ceto medio-basso, e di garantire rimborsi pieni agli atenei, senza penalizzare quelli con molti esenti. Ciò davvero aprirebbe le porte dell’università a decine di migliaia di giovani in più, specialmente al Sud. Inoltre, come suggerito, bisognerebbe uniformare l’esenzione ex ante: uno studente sotto soglia non dovrebbe dover anticipare tasse per poi aspettare un rimborso; dovrebbe proprio non pagarle fin dall’iscrizione, evitando così ogni esborso che può essere un deterrente all’immatricolazione. Un rafforzamento del FFO su questo capitolo è quindi una misura di inclusione sociale fondamentale.
Analogamente, investire nei servizi di supporto (counseling psicologico, orientamento in itinere, ecc.) è oggi quasi una necessità emergenziale: i tragici episodi di cronaca (studenti che arrivano a gesti estremi per lo stress) e le statistiche sul benessere mentale dei giovani dicono chiaramente che l’università deve attrezzarsi meglio per sostenere gli studenti nel percorso. Tagliare quei fondi – come avvenuto nel 2025 – va esattamente nella direzione opposta. Colpisce l’osservazione del CNSU: “in un contesto segnato da instabilità sociale, difficoltà economiche e progressivo isolamento, risulta inspiegabile ridurre proprio quegli strumenti che favoriscono inclusione, benessere e partecipazione”. Le implicazioni sono dirette: meno servizi di supporto significano più studenti lasciati soli di fronte alle difficoltà, più abbandoni, più ritardi, e a volte conseguenze personali dolorose. Anche qui, i primi a soffrirne sono gli studenti con meno reti di protezione: fuori sede senza famiglia vicina, studenti lavoratori, studenti con disabilità o DSA, etc. Un finanziamento attento all’inclusione dovrebbe aumentare – e non diminuire – queste voci, vincolando magari i fondi a servizi specifici (ad esempio, imponendo a ogni ateneo di attivare uno sportello di supporto psicologico gratuito, e finanziandolo adeguatamente).
Inoltre, l’FFO 2025 non prevede alcun significativo abbattimento dei costi d’iscrizione: si affida alla no-tax area esistente, ma non contempla misure come riduzioni generalizzate delle tasse. Eppure, alcune forze (tra cui l’ADI) chiedono da tempo di ridurre le tasse universitarie in Italia, tra le più alte in UE per gli studenti non esonerati. La FLC CGIL, nelle sue rivendicazioni, afferma esplicitamente di voler finanziare non solo il piano precari ma anche “un abbattimento degli attuali costi di iscrizione, in grado di abbassare significativamente la soglia di accesso alla formazione terziaria”. Ciò a riconoscimento del fatto che la combinazione di tasse, costi di mantenimento e carenza di borse scoraggia tuttora molti diplomati dal proseguire gli studi. Un rinnovato investimento pubblico dovrebbe mirare a portare l’università, se non gratuita, quantomeno accessibile a tutti senza ostacoli economici. In prospettiva, l’idea di rendere gratuita la laurea triennale o il primo biennio per tutti è stata discussa in altri Paesi: avrebbe un costo, certo, ma anche un ritorno in termini di capitale umano diffuso.
Le implicazioni per gli studenti e per i precari di un finanziamento insufficiente come quello attuale si possono riassumere in una frase: maggiori barriere e minori opportunità. Barriere all’ingresso (economiche, sociali), barriere nel percorso (mancanza di supporto, precarietà di chi insegna), minori opportunità di riuscita (meno stage, meno networking, meno attenzione personale). Tutto ciò contrasta con la missione dell’università come ascensore sociale e come motore di uguaglianza. È evidente che per rimuovere queste barriere occorrono risorse aggiuntive e un ripensamento delle priorità di spesa.
Il finanziamento italiano e i modelli esteri
Per contestualizzare adeguatamente lo stato del finanziamento universitario italiano, è utile uno sguardo comparativo sia in ambito europeo sia verso grandi sistemi extraeuropei come gli Stati Uniti e la Cina. Il divario di investimento di cui si è detto trova conferma: l’Italia spende intorno allo 0,4–0,5% del PIL per l’istruzione universitaria (considerando la spesa pubblica), mentre la media UE-27 è più vicina allo 0,7% e Paesi come Francia e Germania superano tale soglia. In termini di spesa totale (pubblica+privata) per l’istruzione terziaria, l’Italia arriva a circa 1% del PIL, contro il 1,5% del Regno Unito e oltre 2,5% degli USA (dove incide molto la spesa privata). Naturalmente i sistemi differiscono per struttura, ma questi indicatori segnalano una sotto-dotazione cronica.
In Europa, la tendenza degli ultimi anni è stata generalmente volta ad aumentare i finanziamenti universitari, riconoscendo il ruolo dell’istruzione superiore nella società della conoscenza. Ad esempio, la Germania post-2006 (dopo la riforma del federalismo) ha investito decine di miliardi aggiuntivi nelle università tramite accordi federali (piani per giovani ricercatori, per l’edilizia, per l’internazionalizzazione). La Francia ha lanciato Opération Campus e altri programmi per modernizzare le università e ha aumentato le retribuzioni dei ricercatori per renderle più competitive. La Spagna, pur avendo sofferto i tagli della crisi del 2011-2013, sta recuperando con aumenti nel finanziamento nazionale e con nuove leggi (LOSU 2023) che promettono risorse stabili. L’Italia invece, come abbiamo visto, ha avuto andamenti a singhiozzo, partendo comunque da un livello più basso. Questo si traduce in differenze tangibili: in Italia ci sono circa 1,6 milioni di studenti universitari su ~60 milioni di abitanti, in Francia oltre 2,7 milioni su 67 milioni, nel Regno Unito circa 2,5 milioni su 66 milioni (comprendendo però molti internazionali). Il numero di docenti/professori in Italia è intorno a 55 mila; in Germania, contando anche il personale scientifico non di ruolo, si superano di gran lunga le 100 mila unità nelle Hochschulen. Il rapporto laureati popolazione giovanile l’abbiamo già citato (30% vs ~45-50%). Questi dati collocano l’Italia agli ultimi posti in Europa per investimento e output formativo terziario, appena sopra a paesi molto più piccoli e con PIL minore.
Il modello statunitense, spesso citato, è molto diverso perché basato su forte spesa privata (rette elevate, endowment, fundraising) oltre al finanziamento pubblico. Gli Stati Uniti spendono complessivamente circa il 2,7% del PIL per l’istruzione terziaria, la quota più alta al mondo, ma di questi solo circa lo 0,9% è spesa pubblica diretta; il resto proviene da famiglie, fondazioni, settore privato. Inoltre, gli USA investono somme enormi in ricerca e sviluppo (R&D), circa il 3,1% del PIL, con grandi agenzie federali (NSF, NIH, DoE) che finanziano università e centri di ricerca. Le loro università di punta (Harvard, MIT, Stanford, ecc.) dispongono di bilanci pluriennali da decine di miliardi di dollari, grazie a risorse che l’intero sistema italiano può solo sognare. È chiaro che l’Italia non può “copiare” quel modello per ragioni storiche e culturali (oltre che di scala finanziaria), ma può trarne un insegnamento: la convinzione condivisa – pubblica e privata – che l’istruzione superiore sia un volano strategico per lo sviluppo. Negli USA investono perché sanno che dalle università escono innovazione, imprenditorialità, leadership scientifica e tecnologica. L’Italia fatica ancora ad avere questo livello di convinzione politica e sociale, come testimoniato dal dibattito spesso marginale sull’università nei media e nell’agenda pubblica.
Il modello cinese è ancor più emblematico. In pochi decenni la Cina ha completamente ridisegnato il proprio sistema universitario con investimenti colossali guidati dallo Stato. Ha costruito centinaia di nuovi campus, ampliato l’accesso in modo massiccio (oggi la Cina laurea milioni di studenti l’anno, con un tasso di accesso universitario attorno al 50%, ormai paragonabile all’Occidente), e punta deliberatamente a far emergere università di livello mondiale. Il finanziamento pubblico cinese all’università e alla ricerca è cresciuto di anno in anno a doppia cifra, portando la spesa in R&D al 2,4% del PIL (molto vicina a quella europea) e quella per l’istruzione superiore a livelli simili (anche se i dati precisi sono di difficile comparazione, data la struttura diversa). Conseguenza: la Cina oggi produce più articoli scientifici di qualsiasi altro Paese, sforna un numero enorme di dottori di ricerca in STEM, attira studiosi cinesi formati all’estero con salari competitivi e opportunità di ricerca avanzate. In parallelo, finanzia borse e programmi per mandare studenti all’estero (prevedendo poi di riaverli in patria arricchiti di competenze). È un modello centralizzato e non privo di critiche, ma sul piano delle risorse è indubbio che la Cina abbia scelto di investire massicciamente sul capitale umano qualificato per alimentare la sua crescita economica e la sua influenza globale.
Il confronto con questi modelli mette in luce come l’Italia rischi, senza interventi correttivi, di perdere terreno nella competizione globale della conoscenza. I Paesi a più alto investimento avranno università più attraenti, brevettabilità maggiore, etc. Un segnale già evidente: molti giovani italiani vanno a fare il dottorato o post-doc all’estero e non tornano, perché all’estero trovano condizioni migliori (in primis, più posizioni aperte e stipendi più alti). Nel frattempo, le università italiane faticano ad attirare studenti stranieri (se non nelle scuole di eccellenza) proprio perché non offrono borse e servizi comparabili ai competitor. Ad esempio, la Germania offre istruzione universitaria quasi gratuita anche agli stranieri e borse DAAD generose; la Francia ha programmi di esenzione e corsi in inglese in crescita; l’Italia arranca con poche borse per internazionali e spesso ancora corsi solo in italiano. Ciò dipende anche dal fatto che mancano risorse dedicate per l’internazionalizzazione diffusa (a parte qualche progetto speciale).
La nostra risposta per una Università con le persone al centro
Dall’analisi condotta emergono con chiarezza le aree di criticità del finanziamento ordinario alle università e, specularmente, le linee lungo cui è doveroso agire per invertire la rotta. Oltre al proprio lavoro di analisi, l’ADI ha da sempre portato avanti una intensa elaborazione politica rivendicativa. L’obiettivo è delineare un quadro di interventi coerente con la visione di un’università pubblica potenziata, inclusiva e proiettata nel futuro, che indichi ai decisori politici la direzione del cambiamento auspicato.
1. Aumento strutturale del finanziamento e allineamento agli standard europei
La prima e fondamentale richiesta è di aumentare in modo significativo il finanziamento pubblico delle università, invertendo la tendenza al sottofinanziamento. Questo significa andare oltre i marginali incrementi nominali e puntare a un riallineamento con la spesa media europea entro pochi anni. In termini pratici, proponiamo di fissare un obiettivo nazionale di spesa per l’Università (FFO + altri fondi) pari almeno allo 0,7% del PIL entro il 2030, rispetto all’attuale ~0,45%. Ciò richiederebbe incrementi di qualche decimo di punto di PIL, equivalenti a diversi miliardi di euro aggiuntivi all’anno per un periodo pluriennale. Solo così si potrà colmare il gap attuale. Le risorse per farlo vanno trovate riallocando priorità di spesa nel bilancio statale: è una questione di scelta politica. L’ADI propone di reperire fondi tagliando spese improduttive e belliche e investendo sul sapere, perché “riallineare le risorse per l’università pubblica a quelle degli altri Paesi europei” è condizione essenziale per ottenere risultati simili. In concreto, chiediamo che già dalla prossima legge di bilancio vengano reintegrati i €551 milioni tagliati nel biennio 2024-25 e aggiunti ulteriori fondi per compensare inflazione e aumenti salariali. Successivamente, occorre pianificare aumenti annuali costanti dell’FFO almeno del +5% reale per il resto del decennio. Questo sforzo finanziario va visto come un investimento: come evidenziato dallo stesso governo nel DEF, le riforme in istruzione e ricerca hanno ritorni positivi sul PIL nel medio-lungo periodo. In altri termini, ogni euro speso ora in università genera crescita futura, oltre a concorrere agli obiettivi sociali ed educativi.
2. Revisione del modello di riparto: più equità e lungimiranza
Parallelamente all’aumento delle risorse, è necessaria una revisione del modello di allocazione dell’FFO per renderlo più equo e funzionale agli obiettivi di sistema (non solo alla competizione individuale tra atenei). Proponiamo:
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Preponderanza della quota base con eliminazione progressiva della quota premiale: pur senza rinunciare ai principi di qualità complessiva del sistema, riteniamo che la quota premiale del 30% non vada considerata quale dogma inderogabile e imprescindibile. In fasi di sottofinanziamento, allocare il 30% su base competitiva rappresenta un nocumento al sistema nel suo complesso. Si auspica, in linea con quanto affermato dal CNSU, una revisione dei criteri di assegnazione della quota premiale per superare lo sbilanciamento verso la sola dimensione scientifica e premiare anche la qualità della didattica e dell’inclusione. In concreto, suggeriamo di inserire nuovi indicatori legati, ad esempio, al miglioramento dei tassi di successo degli studenti, alle politiche di inclusione degli atenei, all’impatto socio-economico locale. Inoltre, man mano che entrerà in vigore la VQR 2020-24, sarà cruciale rivederne i meccanismi per evitare eccessive distorsioni (la precedente VQR ha mostrato limiti metodologici). In prospettiva, sarebbe opportuno eliminare la quota premiale: la norma consente al MUR di modulare fino a un max 30%, ma non obbliga a tenerla al massimo. Più risorse nella base – distribuite in modo ponderato – potrebbero servire meglio ad alzare i livelli minimi di tutti.
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Maggiore peso alla perequazione territoriale: l’università è stata laboratorio e strumento per sperimentare negli anni una forma dispositiva di autonomia differenziata sotto il velo dell’autonomia. Per invertire tale tendenza frammentaria e disgregante, proponiamo di portare la quota perequativa almeno al 3% dell’FFO nel triennio a venire, recuperando i livelli pre-2010 (quando esistevano fondi di riequilibrio più consistenti). Ciò implica stanziare circa €300 milioni annui. Tali risorse aggiuntive andrebbero destinate in modo mirato a sostenere gli atenei con condizioni più svantaggiate (indicatori potrebbero essere: reddito medio studenti, PIL procapite regionale, tassi di migrazione studentesca in uscita, bilanci in sofferenza). La clausola di salvaguardia andrebbe mantenuta con soglie positive e meno ampie: ad esempio, garantire a tutti un +2% minimo e fissare un +5% massimo. Così si unirebbe l’equità al principio meritocratico, ma con forbice ridotta. Concordiamo col CUN che la salvaguardia +1/+6, pur meglio del -4/0, lascia troppa divergenza; la nostra proposta la stringe un po’ e soprattutto la supporta con fondi aggiuntivi (per non togliere risorse altrove). L’obiettivo è far sì che nessun ateneo resti indietro oltre un certo limite e che quelli in maggior difficoltà abbiano un aiuto concreto a risalire.
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Congelamento temporaneo dell’aumento del costo standard: accogliamo il suggerimento del CUN di sospendere per alcuni anni l’incremento della percentuale di FFO distribuita col criterio del costo standard per studente. Già al 36%, questo parametro ha un impatto notevole; portarlo subito oltre senza attendere un riequilibrio può danneggiare ulteriormente quegli atenei che soffrono cali di iscritti o grandi esenzioni. Proponiamo dunque di mantenere la quota costo standard al 36% almeno fino al 2026, valutando attentamente gli effetti e mettendo in atto correttivi (come includere nel calcolo anche gli studenti fuori corso in modo ponderato, per incentivare recuperi e non punire eccessivamente chi ne ha molti). Nel frattempo, si potrebbe riformare il calcolo del costo standard includendo indicatori di contesto (costo della vita locale, situazione socio-economica degli studenti) per avere un indicatore più equo.
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Trasparenza e partecipazione nella definizione dei criteri: chiediamo che ogni revisione dei criteri FFO avvenga con il coinvolgimento attivo degli organi rappresentativi (CUN, CNSU, CRUI) e previa pubblicazione di analisi di impatto. Ad esempio, se si cambiano i pesi degli indicatori premiali, andrebbe simulato l’effetto sulle assegnazioni e condiviso con il sistema, per evitare sorprese o effetti indesiderati. Questo renderebbe il processo più democratico e tecnicamente fondato. Serve inoltre massima trasparenza sui dati: il MUR dovrebbe pubblicare in formato aperto tutti i dati utilizzati nei calcoli (dal costo standard per ateneo agli esoneri ISEE coperti, ecc.), così che la comunità accademica possa anche autonomamente elaborarli e suggerire miglioramenti.
3. Piano straordinario di reclutamento e stabilizzazione dei precari
Una proposta centrale – che qui ribadiamo con forza – è il varo di un Piano Straordinario Nazionale per il Reclutamento nel sistema universitario, finalizzato da un lato a stabilizzare i precari qualificati (RTD, assegnisti, ecc.) e dall’altro ad ampliare gli organici in modo da abbassare il rapporto studenti/docenti e ringiovanire il corpo accademico. Questo piano, per essere credibile, deve avere finanziamento dedicato pluriennale (aggiuntivo rispetto all’FFO ordinario, oppure inglobato ma indicizzato in crescita). Si potrebbe riprendere e potenziare l’idea dei Piani straordinari RTD-B lanciati nei governi scorsi, ma su scala più ampia e ordinaria. La FLC-CGIL ha presentato nei mesi scorsi proposte dettagliate al riguardo, che suggeriamo come base: essi chiedono di “stabilizzare decine di migliaia di precari” e di far compiere un “salto dimensionale del sistema universitario italiano” quanto a personale.
Un possibile target potrebbe essere quello di assumere 20.000 nuovi ricercatori in 3 anni, di cui una buona parte provenienti dagli attuali RTD-A/assegnisti meritevoli. Contestualmente, convertire da subito almeno 5.000 RTD in professori associati (quelli già maturi o in scadenza) e bandire alcune migliaia di posti da professore ordinario per promuovere gli associati abilitati, liberando posti a valle. Numeri di questo genere riporterebbero il numero di docenti a valori vicini a quelli pre-2010 e soprattutto darebbero prospettiva ai giovani. Il costo stimato di un’operazione del genere potrebbe essere attorno a 1-1,5 miliardi di euro l’anno a regime (considerando stipendio e oneri di nuovi assunti), ma si può modulare gradualmente. Sono cifre importanti ma sostenibili se inquadrate nel più generale aumento di spesa pubblica per università richiesto: ad esempio, su 5 miliardi di incremento FFO entro 2030, anche destinarne 1-1,5 alle assunzioni straordinarie è ragionevole.
Un ulteriore tassello imprescindibile per rafforzare il sistema della ricerca è la piena valorizzazione del titolo di dottore di ricerca, al di là della facilissima retorica che si apprende in alcune proposte di legge depositate nel corso della XIX Legislatura. Oggi più che mai, serve riconoscere che il PhD non è un titolo ornamentale, ma un percorso formativo-lavorativo di altissima qualificazione, che deve tradursi in un vantaggio competitivo reale nei concorsi e nell’accesso al lavoro pubblico e privato. Per questo proponiamo che, in tutte le selezioni della Pubblica Amministrazione per profili ad alta qualificazione, il possesso del titolo di dottore di ricerca dia diritto a un punteggio aggiuntivo significativo, superiore a quello attribuito ad altri titoli post-laurea, e che nei bandi sia prevista una quota di posti riservata ai dottori di ricerca, così da aprire uno sbocco certo anche fuori dall’accademia. In questa prospettiva, l’esperienza di ricerca maturata durante il dottorato dovrebbe essere riconosciuta a pieno titolo come esperienza lavorativa, con un valore pari alla durata del percorso.
Accanto a questo, occorre un intervento più strutturale: l’inserimento dei dottori di ricerca nel mondo del lavoro va garantito attraverso misure rivolte aii datori di lavoro privati di medie e grandi dimensioni, con meccanismi di compensazione che finanzino un Fondo nazionale e regionale per l’occupazione dei PhD. Si tratta di un modello che non inventa nulla di nuovo, ma che si ispira a esperienze già esistenti per altre categorie protette e valorizzate, applicandole finalmente a chi ha investito anni del proprio lavoro e della propria vita nella formazione avanzata.
Per rendere il dottorato davvero attrattivo, è essenziale che le borse siano adeguate alla retribuzione minima imponibile ai fini previdenziali e che i dipendenti pubblici ammessi ai corsi possano beneficiare di congedi realmente efficaci, utili non solo alla formazione, ma anche alla progressione di carriera. In poche parole, la valorizzazione del dottorato deve diventare un principio sistemico: non più un titolo da relegare in fondo ai curriculum, ma una leva di sviluppo per l’intero Paese.
Il piano straordinario dovrebbe prevedere anche un fondo per gli adeguamenti stipendiali futuri, cosicché l’assunzione massiva di giovani non gravi poi interamente sui bilanci degli atenei negli anni successivi (ricordiamo infatti che l’avanzamento di carriera comporta scatti e aumenti: il MUR dovrebbe farsene carico in quota parte centrale, come fece col “Fondo per progressioni” qualche anno fa). L’idea è di non lasciare agli atenei la scusa per non assumere (“poi non riusciremo a pagarli”): lo Stato deve accompagnare l’investimento anche nelle spese ricorrenti.
4. Contrasto immediato alla fuga dall’Italia:
Accanto al reclutamento strutturato, bisogna intervenire a monte, sul dottorato e sul post-dottorato. Proponiamo di:
Aumentare il numero di borse di dottorato ordinarie: stabilire un obiettivo di almeno 15.000 borse di dottorato annue finanziate (contro le ~9.000 pre-PNRR e le ~13.000 col PNRR). Questo significa incrementare la voce A del FFO (borse dottorato) di almeno €100 milioni in più all’anno, così che ogni ateneo possa bandire più posti. L’Italia deve formare più ricercatori se vuole anche avere più innovazione nelle imprese e nella PA.
Incrementare l’importo delle borse in linea con il costo della vita: il recente aumento del 2022, che ha portato il netto minimo a €1.195,29/mese è stato positivo, ma andrebbe indicizzato all’inflazione. Chiediamo al MUR di coprire integralmente l’aumento dei costi delle borse per gli atenei: nessun ateneo deve rimetterci per pagare borse più alte. Inoltre, valutare periodicamente (es. ogni 3 anni) un ulteriore adeguamento per rendere il dottorato attrattivo anche rispetto a stipendi del settore privato.
Istituire due anni post-doc garantito per i migliori dottori di ricerca: sull’esempio di alcuni Paesi, si potrebbe prevedere che ogni dottore di ricerca che abbia concluso con esito eccellente (es. “cum laude”) ottenga un contratto di ricerca biennale presso lo stesso ateneo o consorziato, finanziato centralmente. Questo darebbe un’immediata opportunità di proseguire il lavoro, evitando brusche interruzioni, e alimenterebbe il serbatoio per le future posizioni stabili. Un programma nazionale di “post-doc research contracts” – magari intitolato a qualche figura scientifica italiana – potrebbe finanziare, ad esempio, 500 posizioni l’anno, rinnovabili per un secondo anno, in aggiunta alle posizioni da contrattista e incaricato post-doc tradizionali.
Contrastare la fuga dei cervelli con incentivi al rientro: prevedere fondi (sul modello del “rientro dei cervelli” degli anni scorsi) per attrarre giovani italiani (e non) dall’estero. Ad esempio, bandire ogni anno 100 posizioni da professore associato o RTD riservate a chi ha almeno 3 anni di ricerca all’estero, finanziate interamente dallo Stato. Questo porterebbe nuove competenze e invertirebbe il flusso in minima parte il brain drain denunciato da tempo, e per primi proprio dall’ADI.
Queste misure, sommate, darebbero un segnale ai giovani ricercatori che in Italia c’è spazio per loro. Allo stato attuale, invece, il messaggio percepito è esattamente l’opposto, ovvero che l’accademia è un collo di bottiglia dove pochi (spesso non i migliori, ma i più fortunati, i più privilegiati per censo) passano.
5. Rilancio del diritto allo studio: università accessibile a tutti
Senza studenti non c’è università: occorre quindi abbattere le barriere economiche e sociali che impediscono o scoraggiano l’accesso e la frequenza degli studi universitari. Le nostre proposte in tal senso:
Portare la no-tax area nazionale a €30.000 di ISEE entro pochi anni, partendo da un primo aumento a €25.000 già dal prossimo anno. In parallelo, aumentare il fondo compensativo alle università in misura proporzionale all’estensione della platea, così che gli atenei non subiscano perdite. Come richiesto dal CNSU, la compensazione deve essere piena e basata sulle reali perdite di gettito, tenendo conto del contesto socio-economico di ciascuno (chi ha tanti esonerati riceve di più). L’investimento richiesto è relativamente modesto: oggi lo Stato spende circa €320 milioni per compensare la no-tax area; portandola a 30k e coprendo tutto potrebbe doverne spendere forse il doppio (indicativamente ~€600 milioni), cifra assolutamente sostenibile se prioritaria.
Aumento delle borse di studio e alloggi per studenti: il PNRR ha investito su posti alloggio (60mila nuovi posti entro 2026) e il FIS è stato incrementato. Bisogna però istituzionalizzare questi aumenti, rendendo strutturale il livello di finanziamento. Proponiamo di garantire la borsa di studio a tutti gli idonei (cosa ancora non totalmente vera in alcune regioni) e di aumentare gradualmente l’importo medio della borsa, specialmente per i fuorisede, per coprire l’aumento del costo della vita. Inoltre, chiediamo allo Stato di farsi carico, se i privati non lo faranno, di completare i piani di housing studentesco: quei 60.000 posti PNRR devono essere realizzati effettivamente, e se necessario il MUR integri i fondi. Dopo il 2026, servirà un altro piano per continuare a crescere nei posti letto, magari sfruttando patrimonio pubblico dismesso da riconvertire in residenze studentesche.
Potenziare i servizi di supporto: invertire la rotta rispetto al 2025, ripristinando i €2 milioni tagliati e aggiungendone altrettanti, vincolati a sportelli di supporto psicologico e servizi di tutorato. Ogni ateneo dovrebbe avere un centro di counseling ben finanziato (magari in convenzione con il SSN) per offrire assistenza gratuita agli studenti in difficoltà. Inoltre, servono risorse per programmi di peer mentoring, attività sportive e culturali per coinvolgere gli studenti e migliorare la qualità della vita universitaria. Queste spese non sono “optional”: contribuiscono a formare laureati migliori e cittadini più attivi, e riducono gli abbandoni. Il MUR potrebbe istituire un Fondo per il Benessere Studentesco, di importo non elevatissimo (es. 50 milioni annui), da ripartire tra gli atenei con vincolo di utilizzarlo per queste iniziative (sul modello di quanto fu fatto con i fondi per tutorato nel 2018).
Riduzione generale delle tasse universitarie: oltre alla no-tax area per i redditi bassi, sarebbe opportuno ridurre il contributo chiesto anche agli studenti con ISEE medio-alti, per avvicinarci a un modello di Low Tuition Fees europeo (come in Francia o Spagna). L’ADI propone di tendere verso la gratuità della laurea triennale e una modesta contribuzione sulla magistrale. In attesa di un intervento così radicale, come segnale si potrebbe calmierare le tasse massime imponendo un tetto nazionale all’importo totale richiedibile (oggi alcune università possono arrivare a più di 3.000 euro annui per ISEE alti; si potrebbe fissare un massimale di 2.000 euro ad esempio, compensando le perdite via FFO). Nel lungo termine, l’università pubblica dovrebbe essere il più possibile a costo zero all’atto dell’iscrizione, finanziata dalla fiscalità generale: questa è una scelta di civiltà che molti Paesi europei già praticano (Germania, Paesi nordici, etc.).
6. Investire in ricerca, didattica e “quarta” missione
Accanto alle misure emergenziali su organici e diritto allo studio, bisogna guardare alla qualità complessiva che vogliamo raggiungere. Proponiamo quindi:
Finanziamenti mirati per la ricerca: aumentare i fondi PRIN (Progetti di Rilevante Interesse Nazionale) e FIS (Fondo Italiano per la Scienza) e collegarli anche a obiettivi di reclutamento di giovani (ad esempio vincolare stabilmente quote dei PRIN e dei FIS all’assunzione di post-doc dedicati).
Supporto alla didattica innovativa: prevedere finanziamenti per progetti di miglioramento della didattica (digitalizzazione, laboratori didattici, corsi in lingua straniera per internazionalizzazione, ecc.). Spesso queste iniziative restano ai margini, autofinanziate o a carico dei docenti volenterosi. Un Fondo Didattica 4.0 potrebbe incentivare gli atenei a rinnovare i metodi e i contenuti formativi, premiando collaborazioni con il mondo del lavoro, l’uso di nuove tecnologie, la creazione di Open Educational Resources, ecc.
Sviluppo della “quarta missione”: ormai si parla non solo di terza missione (rapporti col territorio, trasferimento tecnologico) ma anche di quarta missione – l’impegno dell’università per lo sviluppo sostenibile, la salute pubblica, la diffusione della cultura scientifica. Proponiamo che parte dell’aumento di spesa sia destinata a finanziare programmi congiunti università-territorio in queste aree: ad esempio convenzioni tra atenei e scuole per la formazione insegnanti e l’orientamento (estendendo quanto fatto com il Piano Lauree Scientifiche, prevedendo piani omologhi anche per le lauree in social sciences and humanities), oppure tra atenei e sistemi sanitari regionali per potenziare la ricerca medica traslazionale e al contempo migliorare i servizi sanitari (pensiamo alle carenze di medici e specializzandi – tema populisticamente toccato con la riforma dell’accesso a medicina). Tutto questo rientra nel ruolo sociale dell’università e necessita di risorse dedicate perché spesso non genera ritorni economici immediati ma ha un enorme valore sociale.
Miglioramento delle carriere e attrattività del settore: un aspetto da non dimenticare è la valorizzazione del personale esistente. Gli aumenti stipendiali recenti sono andati in questa direzione, ma docenti e personale TAB italiani restano pagati meno dei colleghi di altri Paesi a parità di livello e ore di lavoro. Occorre continuare ad adeguare le retribuzioni almeno all’inflazione e prevedere progressioni di carriera più dinamiche (ad esempio riducendo i tempi per gli scatti biennali o introducendo meccanismi valutativi interni basati sulle missioni dell’università). Naturalmente, ciò va fatto nell’ambito della contrattazione collettiva e con risorse ad hoc (che dovrebbero essere parte integrante degli stanziamenti di bilancio).
L’idea-forza è di costruire un patto per l’università, non una ristrutturazione di questa università: aumentare i fondi, chiedendo al sistema un uso efficiente e finalizzato al bene comune e alle persone di quelle risorse. La comunità accademica – docenti, ricercatori, personale e studenti – è pronta a fare la propria parte, come dimostrano le tante iniziative e proposte avanzate. Serve però che la politica metta l’Università al centro dell’agenda nazionale, riconoscendole quel ruolo di motore di sviluppo che a parole tutti le attribuiscono, ma che nei fatti stenta a tradursi in investimenti adeguati.
In conclusione, il Rapporto sul FFO 2025 evidenzia che, sebbene per il 2025 vi sia stato un parziale arresto della deriva di definanziamento, la situazione rimane critica: il Fondo non ha recuperato il terreno perso e il modello di distribuzione presenta distorsioni che possono minare la coesione e la crescita del sistema universitario. Le implicazioni si fanno sentire sui precari, sui giovani ricercatori, sugli studenti – in una parola, sul futuro dell’università italiana. È necessario e urgente operare una svolta profonda nelle politiche universitarie: l’ADI conferma un giudizio nettamente critico sullo schema di decreto in esame e ribadisce la necessità non più rinviabile di un cambio di rotta nelle politiche universitarie. Occorre un impegno concreto per un piano straordinario di reclutamento e stabilizzazione del personale della ricerca e della didattica, accompagnato da un deciso riallineamento delle risorse destinate all’università italiana rispetto agli standard europei. Solo in questo modo sarà possibile invertire la rotta della precarizzazione, restituire prospettive di stabilità alle giovani generazioni di ricercatori e garantire al sistema universitario italiano un futuro competitivo e sostenibile.
Il tempo del cambiamento è ora: il lungo inverno dell’università pubblica può finire solo con un rinnovato impegno dello Stato nel finanziare il sapere come bene comune e con una visione strategica che vada oltre i vincoli miopi di breve periodo. L’ADI, assieme alle rappresentanze universitarie e sindacali, si impegna a portare avanti queste rivendicazioni in ogni sede, e chiama tutta la comunità universitaria – docenti, personale, precari, studenti – a convergere nella mobilitazione e nell’azione comune. Solo facendo fronte unito si potrà ottenere quell’università più finanziata, più giusta e più inclusiva che l’Italia merita per costruire il proprio futuro.
Fonti:
[1] Parere CUN sullo schema di DM FFO 2025 (9 luglio 2025);
[2] Parere CNSU sullo schema di DM FFO 2025 (28 luglio 2025);
[3] Nota FLC CGIL “FFO 2025: si conferma il sottofinanziamento…” (9 luglio 2025);
[4] Nota integrativa al Disegno di Legge di Bilancio 2025 (Sezione Università e Ricerca).
Pubblicato Lun, 25/08/2025 - 10:00
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