La parabola evolutiva del dottorato nel triennio 2019-2022: la pandemia, la lotta per una riforma giusta, la realizzazione della necessità di un cambio di rotta
Quando, nel maggio 2019 la comunità delle dottorande e dei dottorandi veniva chiamata a rinnovare la sua rappresentanza nel Consiglio Nazionale degli Studenti Universitari (CNSU), l'ADI presentava una piattaforma programmatica che, in piena continuità con le precedenti tornate elettorali, raccoglieva un diffuso e convinto consenso.
Erano allora passati quasi dieci anni dall’introduzione della Legge 240/2010 e pochi anni dall’entrata in vigore della conseguente “grande riforma” del dottorato di ricerca operata dall’allora Ministro Profumo con il DM 45/2013. Quella piattaforma programmatica non poteva che cogliere, dunque, le numerose criticità che subito erano emerse neH’implementazione del Decreto da parte degli Atenei. Dette criticità si risolvevano, nella nostra prospettiva, nel rischio di una eccessiva frammentazione delle regole e, di conseguenza, dei diritti e dei doveri.
Quel rischio si era di fatto manifestato con riguardo all’accesso ai fondi di ricerca, alla qualità della formazione, alle modalità di rendicontazione degli obblighi formativi e delle attività di ricerca, alle modalità e ai tempi di conseguimento del titolo, alla permanenza del dottorato senza borsa, alla scomparsa di ipotesi espresse di proroga dei termini di consegna della tesi. Altresì, la nuova regolamentazione favoriva l’apparizione dei cd. mega-dottorati, di difficile gestione sul piano della qualità della formazione e della uniformità delle condizioni, nonché la nascita di forme di dottorato atipiche, con regolamentazioni differenziate ed obblighi abnormi.
Obiettivo principale non poteva che essere, dunque, riformare la disciplina del dottorato attraverso l’introduzione di un nuovo Decreto che tenesse in considerazione le criticità emergenti dalla prassi applicativa che, come unica associazione capillarmente rappresentativa della categoria, portavamo all’attenzione del decisore politico: così abbiamo operato fin dall’avvio della consiliatura 2019-2022, tramite interlocuzioni con la governarne ministeriale ed atti formali, apportando un contributo fattivo al decision-making, fatto di elementi esperienziali che solo chi lavora dal basso può possedere. La nostra attitudine si scontrava, tuttavia, con l’instabilità politica che ha causato l’inopinato e frequente cambio ai vertici ministeriali: ad interlocuzioni avanzate con il Ministro Fioramonti, questi si dimetteva in polemica con la scarsità di risorse poste a bilancio dal Governo; con l’arrivo del Ministro Manfredi ricostruivamo, faticosamente, canali formali e informali per riprendere le discussioni sulla necessaria riforma del DM i quali però risultavano infruttuosi in ragione delle opache modalità di gestazione del nuovo Decreto, che, infatti, scoprivamo essere in prossimità di adozione solo nei concitati giorni successivi alle dimissioni del Governo Conte II.
Una gestione così escludente non poteva che provocare la nostra reazione: proprio attraverso la rappresentanza in CNSU abbiamo provato a fermare quel tentativo di riforma, nella ferma convinzione che un provvedimento così rilevante per le condizioni materiali di dottorandi e dottorande necessitasse la più ampia consultazione e partecipazione di chi quei soggetti rappresenta ogni giorno.
Con il cambio di Governo e l’insediamento di Maria Cristina Messa al Ministero dell’università e della Ricerca, l'ADI ha ribadito fermamente tale necessità, aprendo fin da subito un serrato confronto con gli uffici ministeriali al fine di potere superare l’impostazione strutturale e funzionale della bozza Manfredi, ritenuta, in punto di merito, carente sul piano delle scelte concernenti la composizione dei collegi, la prossimità all’impresa privata, la qualità della formazione, la frammentazione delle regolamentazioni, l’uniformità dei diritti.
Quell’interlocuzione si concretizzava nell'adozione del recente DM 226/2021, che, congiuntamente assieme ad alcune previsioni economiche contenute nella Legge di Bilancio per l'anno 2022, accoglie numerose delle storiche rivendicazioni di ADI: la reintroduzione di forme strutturali di proroga retribuita, l'attenzione alla qualità della formazione, la maggiorazione estero, l'attenzione alla genitorialità, la maggiorazione della borsa ai fini del raggiungimento del minimale contributivo per gli iscritti alla gestione separata, la valorizzazione delle competenze trasversali. Come si dirà più avanti, tuttavia, i risultati che il nuovo Decreto ha portato rimangono parziali, giacché, mantenendosi quell'impostazione di delega agli atenei nella disciplina di aspetti essenziali dei diritti e dei doveri di dottorande e dottorandi, ancora una volta apre alla frammentazione delle regole, a disparità di trattamento, a diseguaglianze materiali.
Una considerazione a parte deve farsi con riguardo all'impatto della pandemia sulle condizioni di vita e lavoro di dottorande e dottorandi: le misure di contenimento e contrasto al COVID-19 hanno improvvisamente portato alla luce criticità mai affrontate dal legislatore e nuove necessità: l'accesso agli spazi di formazione e ricerca, la povertà dei giovani ricercatori, la loro strutturale instabilità e precarietà, la rigidità nella durata del dottorato, l'assenza di tutela per la malattia, le enormi difficoltà sul piano della salute mentale. La nostra associazione ha dunque dovuto, in questo lungo frangente, far fronte a tali contingenze ed aprire riflessioni nuove e profonde con riguardo agli altrettanto profondi dissidi che colleghe e colleghi, da ogni parte del Paese, ci segnalavano. Ciò è accaduto tuttavia senza perdere la nostra visione sistemica e le nostre storiche battaglie, con le quali oggi ci presentiamo nuovamente davanti alla nostra comunità, per muovere decisivi passi avanti nel senso del benessere di tutte e tutti.
La frammentazione delle regolamentazioni secondo la forma di finanziamento. Sulla necessita di uniformità dei diritti e dei doveri
Da oramai un decennio l’ADI segnala, dunque, con certa preoccupazione, un fenomeno di lenta frammentazione della cornice giuridica che regola il dottorato di ricerca in Italia.
Se pure si è fatto coincidere detto movimento con l’adozione del DM 45/2013, il quale ha parcellizzato, nel segno dell’autonomia universitaria, la disciplina di istituti significativi sul piano dei diritti e dei doveri, del finanziamento dell’attività di ricerca e della qualità della formazione, deve riconoscersi come è negli anni più recenti che si è innescata una deriva moltiplicativa: l’incentivo all’attivazione di posizioni di dottorato su progetto dalle più svariate fonti di finanziamento ha contribuito ad una autentica atomizzazione delle regole, al punto che ogni borsa di dottorato può oggi potenzialmente avere una disciplina giuridica diversa, racchiusa nei protocolli d’intesa, nelle convenzioni, nei disciplinari di attuazione. Una tale condizione non può che stridere con gli opposti principi di uniformità dei diritti e delle condizioni materiali di lavoro che debbono ispirare le azioni pubbliche, anche in ragione degli standard richiesti dalla Carta Europea dei Ricercatori. In netto contrasto rispetto a questa fondamentale esigenza si è invece assistito alla nascita di numerose forme speciali di dottorato, la cui regolamentazione cambia a seconda della fonte di finanziamento: ne sono un esempio il dottorato innovativo a caratterizzazione industriale finanziato con fondi PON direttamente allocati dal ministero ovvero con fondi POC, le molteplici categorie di dottorati finanziati con fondi regionali che debbono rispettare regole aggiuntive dettate dagli enti territoriali finanziatori, i dottorati cosiddetti “comunali”, nati nel 2021, su iniziativa parlamentare, attivabili su adesione di comuni insistenti nelle aree interne del paese, nonché i più recenti dottorati del XXXVII ciclo finanziati con i fondi PON allocati con il noto DM 1061 sulle tematiche del green e dell’innovazione.
Guardando alle discipline speciali di ciascuno di questi modelli di dottorato emerge chiaramente quanto il paradigma della unità dei diritti e dei doveri abbia oramai lasciato spazio a una galassia di micro-regolamentazioni non scevre da lacune, che sempre più confondono dottorandi e atenei; tipico esempio di questa confusione (della quale, talvolta, qualcuno approfitta per ridurre diritti e finanziamenti) è la questione della titolarità e dell’utilizzo del budget maggiorato del 40 percento della borsa per i dottorati PON, vero e proprio pomo della discordia tra atenei - che ne rivendicano la titolarità - e dottorandi, i quali anche la rivendicano legittimamente, stante la lettera dei disciplinari di attuazione annuali dagli anni dell’attivazione del programma ministeriale.
L’impostazione frammentata e frammentatoria inaugurata dal D.M. 45/2013 ha colpito non soltanto il cuore dei diritti e dei doveri in capo a dottorande e dottorandi, ma anche istituti accessori - ma non perciò secondari - al dottorato di ricerca.
Uno degli snodi problematici centrali riguarda il c.d. “budget 10% ”, un fondo disponibile a tutti i dottorandi - ivi compresi quelli senza borsa di studio - propedeutico allo svolgimento di attività di ricerca attinenti alla propria ricerca e per l’acquisto di beni e materiali. Seguendo l’andamento del D.M. 45/2013 e ignorando le criticità più volte segnalate dall'ADI, il D.M. 226/2021 nulla ha fatto per evitare le incertezze nell’erogazione dei fondi e normare le procedure di gestione da parte dei dipartimenti, spesso avvolte nella più completa opacità. Nonostante le ripetute richieste dell'ADI e del rappresentante nazionale delle dottorande e dei dottorandi, tanto nella fase di gestazione del Decreto, quanto in quella di attuazione, il Ministero non ha inteso adottare delle linee guida condivise per garantire la fruizione del budget del 107o, per snellire le pratiche burocratiche per le amministrazioni universitarie e per l’adozione a livello nazionale delle best practices chiare per tutte le parti coinvolte (ateneo, dottorando, supervisor).
Le disparità, evidentissime a livello nazionale, si moltiplicano perfino fra ateneo e ateneo, fra dipartimento e dipartimento, arrivando alla negazione dell’erogazione o alla impossibilità di fatto all’accesso al fondo per i dottorandi. Anche sull’incremento della borsa di studio per il periodo all’estero, il D.M. 226/2021, pur avendo superato l’inquadramento precedente garantendo l’incremento nella misura esatta del 507o per un periodo complessivamente non superiore ai dodici mesi, non ha allo stesso tempo chiarito snodi critici. In primis, la mancanza di uniformità nell’erogazione, lasciata anche in questo caso all’autonomia degli atenei, i quali possono stabilire di erogare l’incremento di mensilità in mensilità, oppure, come purtroppo accade nella maggior parte dei casi, in soluzione unica da richiedere entro i 6 mesi dal rientro in Italia. Ciò rende al dottorando italiano difficoltoso sostenere le spese vive in Paesi con un costo della vita più alto che in Italia, comprimendo di fatto l’autonomia, la libertà e la dignità dei giovani ricercatori italiani.
L’estrema frammentarietà della regolamentazione emerge poi chiaramente con riguardo agli obblighi formativi di dottorande e dottorandi. Attesa la considerazione, presente nel DM 45/2013 e reiterata nel nuovo Decreto, per cui il corso di dottorato richiede un impegno esclusivo e a tempo pieno, le norme nazionali, approcciandosi con una visione distorta all’autonomia universitaria, lasciano in capo agli atenei, ai collegi di dottorato e ai dipartimenti una discrezionalità eccessiva, che non consente di definire un quadro unitario ed equo degli obblighi, tra attività seminariali, attività didattica, di ricerca individuale, nonché con riguardo ai crediti da conseguire ed alle ore effettive di lavoro.
Non è certo possibile, comprimendo il principio costituzionale di autonomia e libertà della scienza, pensare a norme stringenti e valide per tutti i corsi di dottorato: tuttavia anche su questo argomento ci si aspetterebbe una posizione più definita da parte del decisore politico nazionale, attraverso linee guida con caratteristiche comuni in termini di obblighi di ricerca, lavoro e formazione a tutti i corsi di dottorato, consentendo poi la definizione puntuale degli obblighi a livello locale.
Il tema della autonomia senza limiti nella definizione del percorso dottorale riemerge con tutta evidenza nel processo di conseguimento del titolo di dottore di ricerca, conseguibile, a norma del D.M. di riforma, solo al termine della difesa finale. A questo punto, sono passati già mesi dal momento in cui il dottorando ha consegnato la prima versione dell’elaborato, che è stato valutato dai revisori esterni. Nei casi più fortunati, l’intero processo richiede tre o quattro mesi di tempo, periodo in cui il dottorando utilizza, pur dovendo ammettere la natura patologica di un tale meccanismo, la DIS-COLL - un altro traguardo ottenuto, nel 2017, a seguito delle battaglie collettive dell'ADI - per sostentarsi. Tuttavia, sono numerosi i casi di Atenei in cui il periodo si allunga fino a 6- 7 mesi totali. Eppure, il D.M. 226/2021 chiarisce come, una volta consegnata la prima versione della tesi, gli uffici la trasmettano ai revisori esterni. A questo punto, “Entro trenta giorni dal ricevimento della tesi, i valutatori esprimono un giudizio analitico scritto, proponendo l’ammissione alla discussione pubblica o il rinvio della discussione della tesi per un periodo non superiore a sei mesi” (art. 8, comma 11); di solito, la scadenza per la consegna definitiva è fissata a circa un mese e mezzo di distanza e da quel momento in poi può avvenire la difesa. Di conseguenza, è difficile giustificare periodi di tempo più lunghi di quattro mesi per l’intero processo, soprattutto considerando il fatto che il dottorando di solito percepisce la sola DIS-COLL, deve comunque rispettare le scadenze stabilite e non può far valere affatto il futuro titolo di dottore di ricerca al fine di partecipare a bandi per posizioni Post-Doc o nella pubblica amministrazione, dal momento che non ha ancora conseguito il titolo. Questo elemento appare gravissimo, perché significa, in un contesto gravemente sottofinanziato e di scarsissime opportunità lavorative per i dottori di ricerca, perdere opportunità di primaria importanza; si ritiene urgente e necessario attuare delle misure che permettano di conseguire il titolo in tempi ragionevoli e con uniformità per tutti i corsi di dottorato. Un altro punto che incrementerà differenze e discriminazione è l’istituto delle proroghe (da 1 a 12 mesi), novellato dal DM 226/2021 (art. 8, comma 6 e 7). Sebbene la reintroduzione di ipotesi espresse di flessibilità in uscita nella normativa nazionale che regola il dottorato di ricerca sia il frutto dell’intenso lavoro collettivo che l’ADI ha portato avanti con abnegazione e pugnacia, in ogni sede, nel corso della pandemia (e che, per vero, era stata una delle critiche più rilevanti dell’associazione già all’alba dell’introduzione del DM 45/2013), non può non rilevarsi, come d’altronde la nostra associazione rilevava già con riguardo alla prima bozza del DM 226, come la formulazione della norma dia la stura ad enormi sperequazioni. Il testo cita infatti due percorsi separati di proroga, uno che prevede la percezione della borsa di studio per i mesi richiesti e uno invece privo di coperture finanziarie, con presupposti diversi, ma che, nella formulazione, appaiono per certi aspetti sovrapponibili. Occorre inoltre aggiungere che l’importo delle borse di studio concesse in proroga è a carico dei singoli Atenei, che devono impegnarsi a trovare i fondi necessari. Da un lato, emerge la decisione del legislatore di non farsi carico di un onere che può diventare notevole e la volontà di lasciare tale incombenza agli Atenei.Dall’altro, è evidente come una simile presa di posizione andrà a creare enormi disparità tra Atenei e, al loro interno, tra singoli dipartimenti, portando a privilegiare ancora una volta quelli che possono fare affidamento su risorse economiche importanti a discapito di quelli che ne hanno meno: in mancanza di linee guida, inoltre, le differenze aumenteranno notevolmente e potrebbero trasformarsi in abusi ed episodi di cattiva gestione.
Di nuovo, la ricerca e i dottorandi in prima persona rischiano di essere messi in secondo piano di fronte alla sordità del decisore politico, il quale, come evidente, non ha compreso appieno la lezione che la pandemia ci ha affidato: la ricerca è attività per sua natura flessibile, che può subire rallentamenti, momenti di fermo, accelerazioni e di nuovo rallentamenti e non prendere atto di questa condizione fisiologica ed irrinunciabile della ricerca dottorale, privando di finanziamenti coloro che necessitino di periodi addizionali di lavoro, rischia di minare alla base la qualità di vita dei colleghi e delle colleghe, in un periodo, quello della redazione finaledella tesi, cruciale per la prospettazione del proprio futuro.
Ancora a sottolineare discrepanze e disparità, la situazione delle dottorande in maternità si divide tra Atenei che hanno deciso in maniera virtuosa di garantire loro il raggiungimento del trattamento economico minimo, impegnandosi a corrispondere il 20% mancante rispetto all’807o versato dall’INPS nei mesi di maternità, e Atenei che invece non hanno stanziato i fondi necessari. Risulta difficile trovare spiegazioni a una tale presa di posizione, soprattutto considerando che l’impegno economico richiesto risulta di solito molto limitato. Inoltre, un punto di grande importanza e che va oltre la mera questione economica, è il riconoscimento del pieno diritto alla genitorialità e il relativo superamento dei concetti di “maternità” e “paternità”.
Se la maternità presenta punti di criticità, il periodo di sospensione dal dottorato che può essere richiesto per motivate ragioni non prevede nessun tipo di copertura finanziaria e nessuna garanzia per coloro che ne fanno richiesta. Si ritiene pertanto essenziale trovare delle modalità che garantiscano anche a chi usufruisce di un periodo di sospensione il riconoscimento di diritti minimi, soprattutto per quanto attiene alle ipotesi di sospensione per motivi di salute, in assenza, oggi, di alcuna tutela previdenziale contro la malattia per gli iscritti alla gestione separata INPS. Su questo aspetto il già citato inquadramento del dottorando come lavoratore in formazione risolverebbe tutte le attuali criticità garantendo una continuità economica ai dottorandi proprio nei momenti di maggiore fragilità.
Sul benessere psicologico, sulla qualità della formazione dottorale e sulle relazioni con il supervisor
La formazione dottorale non è, in molti casi, regolamentata in maniera sufficientemente chiara: stante l’obbligo che incombe sui corsi di dottorato di assicurare alle colleghe ed ai colleghi una formazione di elevata qualità, come disposto, con apprezzabile precisione dall’art. 4 del nuovo DM, non vi sono elementi che permettano un inquadramento di questi obblighi formativi, lasciando nei fatti alle scuole dottorali piena autonomia nel definire percorsi formativi spesso estremamente diversi ed eterogenei tra di loro quanto a ricchezza e qualità della formazione, chiarezza degli obblighi cui è chiamato il dottorando, carico di lavoro.
Mentre alcuni corsi di dottorato prevedono veri e propri corsi o seminari utili all’acquisizione di competenze, altri limitano la varietà degli interventi formativi e la possibilità di scelta di dottorandi e dottorande, che si trovano quindi in un percorso obbligato, spesso solo tangenzialmente rilevante al proprio percorso di ricerca.
Un dottorato che sia veramente formativo deve consentire a dottorandi e dottorande di ottenere, come parte del proprio percorso, sia conoscenze aggiuntive su materie rilevanti per la propria ricerca, sia competenze veramente trasversali e indipendenti dal tema di ricerca e percorso accademico: queste comprendono la scrittura di progetti o application per bandi nazionali e internazionali, competenze linguistiche e di scrittura accademica o di divulgazione e comunicazione scientifica. Lo sviluppo di queste competenze è demandato alle singole scuole di dottorato, risultando quindi spesso completamente assente, non mirato specificamente al dottorato, bensì aperto a figure in varie fasi della carriera con bisogni e competenze diverse, ovvero generici e brevi. Un vero approfondimento dei temi spesso richiede uno studio personale, in quasi totale assenza di supporto da parte del corso di dottorato.
In generale, la completa atomizzazione della formazione all’interno del dottorato accentua la differenza estrema tra esempi virtuosi e casi limite. In alcuni casi, la formazione nel dottorato consiste nella ripetizione di corsi della laurea magistrale, spesso con frequenza obbligatoria, o nella presenza a cicli di seminari organizzati dai dipartimenti, spesso senza nessuna rilevanza rispetto ai temi di ricerca nel dottorato. In questo contesto, spesso a dottorandi e dottorande è negato qualunque ruolo nell’organizzazione e definizione della didattica. Questo fenomeno è di frequente accentuato dall’organizzazione congiunta della didattica in “mega-dottorati” che contengono settori scientifico-disciplinari disparati, sovente con scarsa attinenza reciproca, che quindi riducono ulteriormente la rilevanza delle attività formative programmate.
La proposta dell*ADI è quindi di elaborare delle linee guida nazionali chiare che pongano dei limiti concreti a cosa costituisce formazione all’interno di un dottorato, che vengano aggiornate annualmente e portino a una formazione trasversale solida e al passo coi tempi e con le esigenze del mondo della ricerca. Al tempo stesso, chiediamo la definizione di linee guida per la formazione specifica in ogni settore, che evitino l’accorpamento di settori e campi molto diversi, assicurando a dottorandi e dottorande competenze specifiche al proprio settore, in modo aggiornato e coerente con la diversità all’interno dei singoli campi.
Chiediamo quindi che dottorandi e dottorande abbiano voce in capitolo nella determinazione delle linee guida per la propria formazione, e che queste lascino spazio a una libertà di costruire percorsi formativi individuali, anche selezionando corsi ed eventi da altri corsi di dottorato o persino altri atenei. La partecipazione attiva è un elemento fondamentale della formazione al più alto livello, sia per quanto riguarda tematiche specifiche di ricerca, sia per quanto riguarda l’acquisizione di metodi e competenze trasversali.
Un’altra parte fondamentale nella formazione alla ricerca durante il dottorato è data dal rapporto diretto con il tutor, che costituisce una parte significativa dell’esperienza diretta acquisita da dottorandi e dottorande. Il tutor è il mentore e la figura di riferimento, sia dal lato professionale che da quello umano, e spesso c’è un profondo squilibrio di potere nel rapporto di lavoro.
Alcuni dottorandi e dottorande sono esposti a veri propri abusi e richieste che poco hanno a che vedere con la propria formazione, che includono incarichi didattici ben oltre il limite di 40 ore annue di didattica integrativa previsti dalla normativa nazionale, compiti burocratici o di tutoraggio di studenti e tesisti. Inoltre, alcuni tutor si disinteressano del lavoro dei propri dottorandi e dottorande, o se ne attribuiscono i meriti. In casi meno gravi, è comunque diffusa l’ignoranza e la noncuranza nei confronti di norme che disciplinano il dottorato, pratiche burocratiche e scadenze, che ricadono interamente sulle spalle di dottorandi e dottorande, costretti a informarsi autonomamente o tramite passaparola con i colleghi.
Secondo studi effettuati negli Stati Uniti e in Belgio e riportati in riviste peer reviewed, dottorandi e dottorande sono più esposti al rischio di depressione e ad altri rischi per la salute mentale: la precarietà inerente nel mondo accademico moderno e ritmi di lavoro pressanti contribuiscono a questa problematica. Un altro fattore estremamente importante è dato proprio dal rapporto con il tutor e i colleghi: un supervisore poco presente o, al contrario, troppo pressante e imperioso può minare la salute mentale dei suoi dottorandi e dottorande, aumentando il rischio di sviluppare disturbi da stress e depressione.
Una riequilibrazione dei rapporti tra dottorando o dottoranda e tutor è quindi pienamente necessaria: crediamo sia necessaria l'istituzione di meccanismi di controllo esterni, che non si esauriscano nell’intervento del collegio dei docenti. La proposta dell'ADI è quella di procedere all’assegnazione del/la tutor più rapidamente possibile nei primi mesi di dottorato, che deve prevedere la firma di un accordo tra tutor e dottorando o dottoranda basato sui principi della Carta europea dei ricercatori. L’accordo deve stabilire chiaramente diritti e doveri di dottorando o dottoranda e supervisore, ponendo le basi per un rapporto rispettoso della dignità del lavoro di ricerca e definendo dei meccanismi di tutela. Questi meccanismi devono fare sì che il dottorando o la dottoranda abbia una figura di riferimento imparziale a cui esporre i propri problemi o denunciare abusi (ad esempio nei casi di whistleblowing), oltre a poter terminare serenamente il corso e ottenere il titolo anche in caso di conflitti irrisolvibili che portino ad una rottura dei rapporti con il proprio supervisore. Inoltre, agli stessi tutor deve essere garantita una formazione adeguata: l’attività di supervisione di dottorato è importante quanto delicata, e richiede competenze tecniche sulle norme che regolano il dottorato e sulle pratiche burocratiche più rilevanti, in modo da poter fornire supporto ai propri dottorandi e dottorande, oltre a formazione specifica didattica e pedagogica, in modo da poter seguire l’attività di formazione in modo efficiente. Infine, il benessere psicologico dei dottorandi e delle dottorande deve essere oggetto di formazione specifica per i tutor, data l’importanza di queste figure nella salute mentale di chi inizia un dottorato.
La proposta dell’ADI per un nuovo dottorato di ricerca in Italia: il superamento dello status di studente, il contratto, il salario, i diritti
Da ognuna delle riflessioni svolte sopra emerge chiaramente, come l'ADI ha sostenuto per anni, l’assoluta insufficienza della regolamentazione attuale del dottorato, foriera di diseguaglianze, di prevaricazioni e di difficoltà materiali.
Frequentare un dottorato oggi, nel nostro Paese, può implicare situazioni ben distinte: può significare vedersi riconosciuti diritti diversi, vedersi o non vedersi riconosciuta una borsa così come fondi di ricerca, pagare o non pagare contributi di frequenza, godere o non godere di periodi di proroga, godere o non godere delle maggiorazioni della borsa per i periodi di ricerca all’estero, godere o non godere di una formazione di qualità, soggiacere o non soggiacere a stringenti obblighi formativi, didattici e di ricerca. Tale riflessione già basterebbe se ci si soffermasse sul solo piano del rilievo dell’autonomia universitaria sul riconoscimento di diritti e doveri, ma se a ciò si aggiunge il proliferare di forme nuove di finanziamento con le relative regole particolari, il panorama è forse ancor più drammatico: la diseguaglianza delle condizioni materiali e di ricerca è divenuta una condizione strutturale e fisiologica del sistema, ragione per cui si assiste con sempre più normalità ad enormi disparità di trattamento fra dottorandi della medesima università, dipartimento o corso di dottorato, soggetti a discipline diverse sulla base della diversa fonte di finanziamento.
L'ADI ritiene che sia giunto il momento di scardinare un sistema fondato sulla normalizzazione delle diseguaglianze, che si trincera dietro un’idea distorta dellautonomia universitaria. Ciò può accadere solo attraverso una transizione del dottorato italiano verso il modello contrattuale, al fine di giungere al pieno riconoscimento di una condizione che, in ultima analisi, è già tale nei fatti: il dottorato di ricerca è un lavoro a tutti gli effetti. In questo senso, è tempo di definire chiaramente le condizioni materiali di lavoro e di costruire diritti nuovi, eguali per tutte e tutti. Questa idea, sedimentatasi da lungo tempo nelle riflessioni collettive dell’associazione, risiede in fondo nella più ampia idea per la quale la ricerca è lavoro e come tale i lavoratori della ricerca, fin dall’inizio della loro carriera, hanno il diritto di vedersi riconosciute condizioni contrattuali degne, senza l’uso di strumenti para-contrattuali, atipici, disegnati al fine di contrarre diritti e tutele, lasciando la sicurezza del giovane ricercatore all’arbitrio del proprio supervisore.
L'ADI ritiene quindi urgente portare avanti una proposta a un tempo ambiziosa ed equa, che punti ad eliminare quanto più possibile la discrezionalità degli atenei, che si traduce sempre più spesso in un’applicazione arbitraria delle regole da cui dipendono le nostre condizioni di vita e lavoro. Questa proposta consiste nella contrattualizzazione del dottorato di ricerca, attraverso il passaggio ad una forma di contratto di lavoro subordinato a causa mista, che contemperi le intrinseche finalità di formazione alla ricerca e l’effettiva attività di lavoro che dottorande e dottorandi svolgono nei dipartimenti.
L'ADI immagina che il passaggio al contratto di formazione e lavoro debba comportare un radicale rovesciamento di prospettiva nell’ambito del modello con cui attualmente è disciplinato il dottorato. Il decreto ministeriale, incentrato sul processo di accreditamento dei corsi di dottorato, non è lo strumento adatto per disciplinare inquadramento, diritti e doveri dei dottorandi di ricerca, in quanto orientato a uno scopo diverso e frutto di un processo di elaborazione tecnico opaco e poco partecipato; inoltre, il quadro normativo di riferimento è spesso frammentato nei diversi decreti e disciplinari che regolano le tipologie particolari di dottorato attivate negli anni attraverso linee finanziarie più svariate, come poc'anzi ricordato. È tempo di riportare chiarezza in questa congerie intricata di riferimenti normativi: riteniamo che sia il Parlamento, attraverso una legge a doversi fare carico della disciplina dei diritti e degli obblighi, del salario, dei requisiti minimi della formazione e delle condizioni di lavoro, nonché di ogni altra questione concernente il trattamento economico e l’inquadramento normativo del dottorato di ricerca, al fine di interrompere la catena di diseguaglianze e difformità tra atenei che da un decennio in qua caratterizzano l’Università italiana. Deve essere il Parlamento a definire il quadro strategico della formazione alla ricerca e del lavoro dottorale, in un quadro integrato con gli altri interventi in materia, di modo da costruire una disciplina organica del percorso che si snoda tra dottorato, post-dottorato, contratto di ricerca e docenza. Spesso, le violazioni dei diritti dei dottorandi e delle dottorande nascono nelle zone grigie dello status ibrido, per cui non sono chiaramente elencati orari di lavoro, ferie o diritti in caso di malattia, genitorialità o inderogabili esigenze personali. In molti casi, e in particolare per le nuove forme di dottorato per cui non si è ancora stabilita una prassi consolidata, si lascia spazio all’arbitrio del collegio di dottorato o del singolo supervisore, aumentando il rischio di abusi.
Un contratto nazionale andrebbe a uniformare la situazione atomizzata dei dottorati di ricerca, dando una struttura di diritti e doveri chiara e che impedisca ambiguità e sfruttamento di ogni tipo. La contrattualizzazione del dottorato di ricerca, infatti, permetterà di definire i dettagli dell’impegno lavorativo e formativo dei dottorandi, la quota di didattica e attività cui sono tenuti, le risorse che saranno loro riconosciute per svolgere le attività di ricerca.
La trasformazione del dottorato in un rapporto di lavoro vero e proprio comporterebbe anche labolizione del dottorato senza borsa, in quanto forma più evidente di disparità all’interno del dottorato, facendo però salva la facoltà per i pubblici dipendenti di conseguire il titolo di dottore di ricerca in regime di aspettativa facoltativa e compatibilità con il pubblico impiego. Inoltre, una revisione dell’importo della borsa, che deve essere sufficiente a sostenere una vita autonoma e indipendente, è necessaria. Queste misure di dignità non possono e non devono risultare in una diminuzione del numero di posti di dottorato, ma devono essere combinate a un progressivo aumento del Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO), coprendo tutti i posti di dottorato esistenti e, anzi, andando ad aumentare il numero di posti messi a concorso a livello nazionale. Questo permetterà un rilancio generale del settore della ricerca, in particolare nelle aree più colpite dai tagli seguiti alla riforma Gelmini, che avrà più ampie ricadute nello sviluppo del Paese grazie alla formazione di personale altamente specializzato.
Una piena contrattualizzazione del dottorato si tradurrebbe altresì in evidenti positive ricadute in termini di accesso a diritti che, ad oggi, non sono neanche lontanamente contemplati per la categoria. Attraverso il contratto, infatti, dottorande e dottorandi avranno pieno accesso a forme ordinarie di sostegno a maternità e paternità, alla piena copertura in caso malattia, ad una contribuzione previdenziale sotto l’egida della gestione ordinaria e non di quella straordinaria; inoltre, in questo modo si avrà accesso alle forme ordinarie di sostegno alla disoccupazione previste per i lavoratori subordinati. Da ultimo, con la contrattualizzazione, essendo il reddito soggetto a Irpef, sarà possibile usufruire delle agevolazioni fiscali previste dall’ordinamento italiano, come, ad esempio, scaricare dalle tasse le spese mediche.
La contrattualizzazione risolverebbe inoltre alcuni annosi problemi che riguardano le dottorande e i dottorandi extracomunitari: attraverso il contratto potrebbero accedere al permesso di soggiorno per motivi di lavoro per tutta la durata del contratto, senza dover sottostare a obblighi di rinnovo; inoltre, avrebbero pieno accesso al Sistema Sanitario Nazionale, senza dover sottoscrivere un’assicurazione integrativa che, allo stato attuale, è loro necessaria per poter essere curati. L’internazionalizzazione non resterebbe così una parola vuota, ma si tradurrebbe in un impegno preciso per favorire condizioni materiali di lavoro che siano attrattive per le colleghe e i colleghi stranieri.
L'impegno dell’ADI per la valorizzazione del dottorato di ricerca
Dopo una contrazione del 43,4% dei posti messi a bando dal 2007 al 2018 (cfr. VIII indagine ADI), negli ultimi anni si è verificato un incremento del numero di posizioni di dottorato, dovuto alla rincorsa alla premialità e ad un massiccio uso di fondi esterni nel finanziamento della ricerca, sino a giungere al raddoppio delle posizioni con borsa nel XXXVII ciclo di recente ingresso, attraverso l’uso di fondi afferenti al Programma Operativo Nazionale.
L’aumento delle borse di dottorato è certamente auspicabile, anche in ragione del modestissimo numero di dottori di ricerca nel nostro Paese rispetto agli altri Paesi europei (solo l’1.5 per cento degli studenti che accedono alla formazione universitaria consegue il dottorato di ricerca); e tuttavia non si può prescindere dal fatto che la spendibilità del dottorato non può essere relegata al solo mondo della ricerca accademica, e ciò vale ancor più alla luce della strutturale difficoltà del sistema accademico di assorbire una quota significativa dei dottori di ricerca che forma: come noto, dato l’attuale modello di reclutamento universitario e la cronica situazione di sottofinanziamento che il sistema vive da oltre un decennio, in Italia meno del 10% dei dottori di ricerca può ambire ad un contratto da ricercatore in tenure track (fonte: Vili indagine ADI su dottorato e post-doc). Ciò implica ancor più la necessità che il titolo di dottorato trovi riconoscimento in altri settori in cui tutte le competenze, che dal percorso di dottorato derivano, costituiscano un valore aggiunto e di merito ai fini professionali: in primis, nella pubblica amministrazione e nel settore privato.
In questo contesto, se si considera che nell’anno accademico 2021-2022 si è ormai giunti al XXXVII ciclo, non è più ammissibile che il titolo di dottore di ricerca non sia culturalmente conosciuto dalla società italiana oltre a non essere riconosciuto in termini professionali al di fuori del percorso accademico. Per questo, già da diversi anni, l’azione dell'ADI si muove su due binari paralleli. Da un lato, anche mediante la collaborazione con Atenei, Enti e Fondazioni, si sta adoperando per creare occasioni di confronto, cooperazione e sensibilizzazione tra il mondo dei dottori di ricerca ed il settore privato e della Pubblica Amministrazione, dall’altro si sta impegnando a dialogare con il legislatore affinché la figura del dottore di ricerca sia giuridicamente riconosciuta e valorizzata ai fini concorsuali e di inquadramento professionale, all'interno della società e del tessuto produttivo italiano.
Quanto alla valorizzazione all’interno della Pubblica Amministrazione (PA), l'ADI accoglie con favore l’attenzione rivolta di recente dal legislatore alle categorie che rappresenta e attende che questa iniziativa possa integrarsi nel contesto di una visione chiara della valorizzazione a lungo periodo dei dottori e delle dottoresse di ricerca nella PA. Il decreto 14 ottobre 2021 convertito dalla legge 113/2021 disciplina di fatto le modalità per il reclutamento di personale altamente qualificato, tra cui i dottori di ricerca, definendo le modalità di formazione degli elenchi di professionisti, esperti e personale di alta specializzazione sul portale del reclutamento in PA.
Ciononostante, il riconoscimento del titolo di dottore di ricerca è, nei fatti, del tutto assente nei meccanismi di reclutamento ordinario della PA. Lascia stupiti apprendere che, nonostante gli annunci e le promesse del Ministro Brunetta, il titolo di dottorato in molti concorsi venga ancora valutato alla pari, o forse meno, di alcuni master. In alcuni casi, il titolo viene riconosciuto con un limite temporale (ad esempio, solo se conseguito da non più di 10 anni alla data di pubblicazione del bando) ed è stato del tutto ignorato nella riforma in cui si introduce un’Area IV per i funzionari dedicata alle Elevate Professionalità.
Ciò risulta aggravato dal fatto che, a distanza di due anni dalle nostre interlocuzioni con l’allora Ministra Fabiana Dadone, mancano ancora i regolamenti ministeriali che avrebbero dovuto disciplinare le tabelle di valutazione dei titoli, al fine di dare effettiva attuazione alla legge n. 12 del 5 marzo 2020 che rendeva prioritaria la valutazione del dottorato tra i titoli rilevanti in sede di concorso.
Per dare una risposta concreta ai dubbi che restano da sciogliere in merito al progetto proposto dal Ministero della PA, l'ADI crede sia fondamentale partire da alcune proposte elaborate anche in funzione della fase emergenziale vissuta durante la pandemia:
- Procedure ad hoc per profili altamente qualificati, sulla base del fabbisogno delle Amministrazioni, accentrate presso il Ministero della PA. Il requisito di accesso dovrebbe essere rappresentato dal possesso del dottorato di ricerca, prevedendo il superamento della formula “ove pertinente, tra i titoli rilevanti ai fini del concorso” - contenuta nel comma 3, lettera e-ter), del d.lgs. n. 75 del 2017 - Tali profili potranno essere assunti con contratto a tempo determinato (3 o 5 anni) con trasformazione a tempo indeterminato automatica previa valutazione finale positiva o conseguimento di “abilitazione” specifica rilasciata dalla Scuola Nazionale deirAmministrazione (SNA);
- Pevedere da subito un corso-concorso nella SNA ad hoc per i dottori e le dottoresse di ricerca al fine di formare la classe dirigente del futuro Tale misura potrebbe essere resa strutturale negli anni successivi;
- Permettere ai dipendenti della PA possessori di dottorato di ricerca l’accesso (senza anzianità di servizio) a tutti i concorsi interni delle proprie Amministrazioni, fino alla categoria più alta prevista prima del grado dirigenziale;
- Riconoscimento del dottorato di ricerca come esperienza lavorativa pregressa;
- Riconoscimento di un punteggio aggiuntivo al dottorato nella valutazione dei titoli per le selezioni bandite da amministrazioni pubbliche, aziende speciali ed enti locali, comunque non inferiore al doppio di quello attribuito a ulteriori lauree o lauree magistrali, ovvero non inferiore al triplo di quello attribuito a master universitari o altri titoli post-laurea di durata annuale, in linea con quanto già fatto per il reclutamento docenti con il DL126/2019 ove il dottorato viene valutato almeno il 20% del punteggio totale attribuibile attraverso i titoli;
- Valorizzazione del dottorato di ricerca ai fini delle progressioni economiche e di carriera in qualsiasi settore della PA;
- Reintroduzione del diritto al congedo per il conseguimento del primo dottorato di ricerca, sottraendolo alla discrezionalità del dirigente.
Nell’azione dell’ADI di valorizzazione del dottorato nella PA, la Scuola occupa un ruolo fondamentale. Con il nostro impegno degli ultimi anni siamo riusciti ad ottenere la valorizzazione del dottorato in termini di punteggio nei concorsi (art. 3, comma 6, del D.Lgs. 59/2017), e la nostra azione di sensibilizzazione suH’importanza di avere, tra il personale docente, figure del mondo della ricerca, ha favorito il consolidamento della valutazione degli assegni di ricerca e dell’ASN nei concorsi, nonché la loro introduzione nelle GPS (Graduatorie Provinciali per le Supplenze). Tuttavia, la valorizzazione del dottorato è sempre stata limitata solo ad una valutazione in termini di punteggio del titolo.
L’obiettivo della nostra azione futura è duplice: da un lato favorire l’accesso al mondo della scuola ai dottori di ricerca con procedure semplificate, dall’altro il riconoscimento per i docenti di ruolo. Osserviamo con rammarico che il dottorato di ricerca non viene mai menzionato nella nuova riforma sul reclutamento dei docenti della secondaria e sulla formazione del personale docente prevista dal D.L. 36/2022. L'ADI propone:
- la possibilità di frequentare i futuri percorsi universitari abilitanti parallelamente al dottorato;
- di ridurre le prove di accesso ai percorsi abilitanti all’insegnamento e ai concorsi docenti per i dottori e le dottoresse di ricerca;
- di riconoscere la formazione svolta durante il dottorato convalidando parte dei CFU richiesti per il conseguimento dell’abilitazione all’insegnamento;
- di riconoscere le esperienze di didattica universitaria sia in termini di punteggio, sia come servizio;
- di considerare prioritario il titolo di dottorato per la scelta dei docenti formatori da impiegare nei corsi della Scuola di Alta Formazione;
- di riconoscere il dottorato come parte della formazione per i docenti di ruolo.
NeH’ambito del settore privato, uno dei primi, infausti, tentativi da parte del legislatore, è stata l’istituzione dei dottorati innovativi e industriali (finanziati da privati ed enti terzi in generale), al fine di riconoscere il ruolo dei dottorandi aH’interno delle aziende e di favorire la sinergia fra università e settore privato. Sfortunatamente, questo strumento, che avrebbe dovuto accrescere la spendibilità del titolo di dottore di ricerca all'interno di realtà aziendali, è divenuto in molti casi una forma ulteriore di abuso di personale altamente qualificato, attraverso l’attribuzione di mansioni incompatibili con la qualificazione e con un salario assolutamente inadatto al tipo di compiti svolti. Il dottorato si è trasformato così in un’alternanza tra lavoro di ricerca in accademia e speculazione airinterno dell’azienda. Alla fine del percorso dottorale, infatti, nessun vincolo viene posto alla prosecuzione del rapporto di lavoro tra dottore di ricerca e azienda partner; è anzi permesso a quest’ultima di proseguire la stessa ricerca finanziando nuove borse di dottorato, perpetrando un ciclo di sfruttamento finalizzato a non integrare mai davvero un comparto di ricerca all’interno dell’azienda stessa.
Affinché il titolo di dottore di ricerca veda una spendibilità anche nel settore industriale e privato, infatti, è necessario attuare azioni integrate e continuative che vedano protagonisti il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e il Ministero dello Sviluppo Economico. Non ci si può limitare al coinvolgimento del MUR, continuando a scaricare sui dottorandi, le dottorande e le università la responsabilità del mancato riconoscimento del titolo in ambito aziendale. Sono invece necessarie politiche strutturali che siano volte ad intervenire sulla domanda di queste figure professionali da parte del settore privato, piuttosto che sulla “offerta”, ad esempio coinvolgendo le piccole e medie imprese del territorio e facendo loro comprendere quale sia il valore aggiunto che un dottore di ricerca può portare all’interno della realtà aziendale.
L'impegno dell’ADI per la rappresentanza delle categorie precarie
In continuità con lo spirito della Carta Europea dei Ricercatori, che pone in capo alle università l’obbligo di assicurare una rappresentanza dei ricercatori negli organi decisionali, l'ADI ritiene che i dottorandi e le dottorande debbano essere pienamente coinvolti nella formulazione democratica delle politiche di governo degli atenei.
Attualmente, solo pochi atenei prevedono una rappresentanza elettiva di un rappresentante dei dottorandi in Senato Accademico. Come massimo organo di decisione politica all’interno di un ateneo, è intollerabile che la categoria dei dottorandi, tanto fragili dal punto di vista materiale, ma allo stesso tempo fondamentali per l’accademia italiana, non abbiano una rappresentanza diretta. Non è pensabile che le figure a noi più vicine, ossia quelle di ricercatori strutturati e studenti, possano sostenere questo impegno per noi, garantendo lo stesso nostro livello di sensibilità e preparazione nel tutelare una categoria complessa come la nostra.
È necessario continuare a lottare affinché la presenza di un rappresentante di dottorande/i e assegniste/i di ricerca nei Senati accademici sia estesa a tutti gli atenei in via obbligatoria. Qualora tale introduzione fosse ostacolata dalla procedura di riforma dello Statuto, o qualora si fosse raggiunto il limite di massimo di 35 membri del Senato accademico previsto dalla Legge Gelmini e non si riuscisse a trovare un accordo tra le categorie già rappresentate, riteniamo doverosa almeno l’introduzione di un rappresentante eletto in soprannumero, senza diritto di voto, ma con diritto di parola. Tale rappresentante deve essere separato da quello degli specializzandi. Queste categorie hanno infatti un diverso inquadramento dal punto di vista contrattuale e hanno esigenze e caratteristiche distinte: gli specializzandi, infatti, chiamati a prendere parte all’attività clinica, hanno necessità radicalmente diverse rispetto a una categoria, quella dei dottorandi, che svolge primariamente attività di ricerca e di didattica integrativa - per quanto le due categorie condividano il mancato riconoscimento del proprio impegno come attività lavorativa. Prevedere un rappresentante che riunisca dottorande/i e assegniste/i, inoltre, contribuirebbe a dare continuità alle politiche dei singoli atenei quanto a prosecuzione del percorso e della carriera accademica, informando a una medesima impostazione le due categorie che, nei fatti, sono più affini per fragilità contrattuale, debolezza politica, mancato riconoscimento attuale all’interno dei processi decisionali.La previsione di un seggio senatoriale riservato ai dottorandi di ricerca significa riconoscere pienamente la peculiarità della categoria e delle sue necessità e il suo pieno coinvolgimento nella definizione delle scelte strategiche degli atenei. In questo modo, le norme, i diritti e i doveri definiti a livello nazionale potranno trovare una piena, pronta e sicura ricezione nelle università italiane: la rappresentanza è la migliore garanzia contro una parcellizzazione delle regole e una frammentazione dei diritti nei diversi atenei italiani, permettendo invece una uniformazione al rialzo delle regole e delle condizioni materiali di lavoro. Inoltre, un pieno coinvolgimento della categoria sarebbe di beneficio agli atenei stessi, che potrebbero integrare, migliorare e rendere più attrattiva la propria offerta dottorale recependo le indicazioni di coloro che frequentano un dottorato.
I diritti di rappresentanza di dottorande e dottorandi non devono fermarsi agli organi maggiori di ateneo, ma devono essere esplicitamente estesi, in quelle realtà ove non sia già previsto, ai consigli di dipartimento
Nell’ambito delle singole scuole di dottorato, inoltre, è necessario prevedere un confronto sulla definizione degli obblighi formativi e di ricerca cui è tenuto il dottorando, attraverso la definizione di un documento interno che li disciplini puntualmente e al quale i rappresentanti dei dottorandi in collegio docenti sono tenuti a esprimere parere vincolante. Le attività formative trasversali, invece, comuni a più corsi di dottorato, dovrebbero essere oggetto di confronto a livello di Ateneo tra l’amministrazione e i rappresentanti dei dottorandi dei diversi corsi, riuniti in una consulta dei dottorandi di ricerca - come nelle positive esperienze avviate da alcune università italiane -, la cui attività dovrebbe essere presieduta e coordinata dal rappresentante dei dottorandi in Senato Accademico.
La word cloud del programma CNSU 2022-2025
Pubblicato Sab, 14/05/2022 - 09:56
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