Nel Decreto Legge approvato dal CDM il 10 ottobre scorso, si prevedono misure per la stabilizzazioni di alcune categorie di precari della ricerca e l'estensione della validità dell’ASN da 6 a 9 anni. Per far sì che le due misure siano davvero utili ed efficaci è però necessario investire risorse ben maggiori di quelle che sembrano prospettarsi per università e ricerca nella prossima Legge di bilancio.
Nella scorsa settimana, il Consiglio dei Ministri ha approvato un Decreto Legge che, oltre a diverse misure attinenti la scuola, contiene due misure rilevanti per il mondo della ricerca.
La prima è quella che “consentirà anche ai precari che abbiano maturato anzianità di servizio con assegni di ricerca di essere stabilizzati dai rispettivi Enti, purché rispettino i requisiti di cui all’articolo 20 del decreto legislativo n. 75 del 2017” e la seconda è quella che prevede di estendere la validità dell'Abilitazione scientifica nazionale (ASN) da 6 a 9 anni.
Nel primo caso si tratta di una misura apprezzabile, che amplia lo sguardo sulla complessa questione del precariato storico nei diversi enti di ricerca, guardando anche alle figure più fragili e intermittenti per definizione: gli assegnisti di ricerca. Per far si che questa misura sia efficace, però, è necessario aumentare i fondi destinati al comparto dell’università e della ricerca. Negli ultimi anni i fondi di finanziamento dell’università (FFO) e degli Enti pubblici di ricerca (FOE) sono stati oggetto di politiche volte a preservarne, se non aumentarne leggermente, le disponibilità finanziarie. Eppure gli aumenti in termini nominali non sono lontanamente comparabili con le perdite che questi fondi hanno subito in termini reali nel decennio, ovvero tenendo conto dell’inflazione. All'università manca almeno un miliardo di euro per ritornare ai livelli del 2008 (comunque insufficienti per garantire un sistema universitario più esteso e competitivo di quello attuale), mentre gli enti pubblici di ricerca hanno perso una media di 100 milioni ogni anno dal 2001 ad oggi.
Nel secondo caso si tratta di una misura che lascia qualche dubbio; non possiamo che chiederci: a chi gioverà? Sicuramente ai docenti e ricercatori a tempo indeterminato, ovvero alle figure strutturate, che avranno così più tempo per ottenere i passaggi di carriera (da RTI a PA e da PA a PO) conquistati sul campo scientifico. Lo stesso potrà valere per le figure precarie (RTDa, RTDb e assegnisti), ma con una importante differenza: l’estensione della validità dell’ASN non li tutelerà dalla fine del proprio contratto a termine.
Inoltre, come chiediamo da tempo per l’università, non si può prescindere da un processo generalizzato di reclutamento ordinato e ciclico, nel quadro di un sistema che preveda il superamento del sistema del precariato e la sostituzione di quelle fattispecie contrattuali con percorsi che diano maggiori garanzie ai ricercatori nei passi iniziali della carriera. Queste istanze sono state avanzate dall’ADI in diverse occasioni nell’ambito della piattaforma Ricercatori Determinati e sono il caposaldo della nostra azione anche in questo contesto. Per rispondere alle esigenze delle categorie più deboli del nostro sistema accademico, e per programmare un realistico rilancio del mondo universitario e della ricerca, abbiamo stimato una necessità di investimento di almeno lo 0,075% del PIL 2018, corrispondente a circa un miliardo e mezzo di euro, cifra che più volte è stata riconosciuta come opportuna da parte dello stesso attuale Ministro Fioramonti.
L’ADI chiede che il governo si impegni in occasione dell’imminente definizione della Legge di bilancio ad investire finalmente nel mondo dell’università e della ricerca e a superare il dramma tutto italiano dei precari della ricerca.
Pubblicato Lun, 14/10/2019 - 21:33
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