Scuola Superiore Meridionale e retorica dell'eccellenza: non è Normale

Scuola Superiore Meridionale e retorica dell'eccellenza: non è Normale

Scuola Superiore Meridionale | Normale del Sud | Dopo un confronto con le sedi locali di Pisa e Napoli, proviamo qui a delineare alcuni elementi che emergono dalla nota vicenda dell’istituzione della Scuola Superiore Meridionale.

A nostro avviso, i nodi cruciali della questione sono rimasti in penombra, oscurati da una discussione pubblica banalizzata da argomentazioni che poco hanno a che fare con il futuro dell’università. Colpisce, in primo luogo, il verticismo con cui è nata ed è stata portata avanti l’intera operazione, di cui si è venuti a conoscenza attraverso la pubblicazione in gazzetta ufficiale di un emendamento del governo alla legge di Bilancio. Nessuno degli organi istituzionali della Scuola Normale Superiore o dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II” è stato fatto partecipe dei processi di definizione del progetto. I vertici della Lega di Pisa, per parte loro, ne hanno approfittato per portare avanti una crociata dai toni tragicomici, rivendicando la “Normale ai Pisani” con una mano, mentre con l’altra continuano a governare attraverso ordinanze che tradiscono la loro insofferenza rispetto alla componente universitaria della città. Adesso che la scuola superiore di Napoli, per come l’emendamento è stato riformulato al Senato, sarà sotto l’egida della Federico II, sembra che la discussione vada assumendo una dimensione più locale, tra la mozione di sfiducia del direttore della Normale, Vincenzo Barone, e la gestione amministrativa del nuovo progetto affidata all’ateneo napoletano. Eppure si tratta dell’intervento più rilevante presente in finanziaria riguardante università e ricerca pubblica: non è possibile nascondersi dietro il principio dell’autonomia universitaria quando il punto cruciale è il modello di università che si intende proporre per il Paese.

Serve, al contrario, come sottolineano anche ADI Pisa e ADI Napoli, riaprire con urgenza un dibattito pubblico sul presente e il futuro dell’università italiana.

Il progetto di promuovere la nascita in tutta la penisola di scuole di eccellenza a partire dall’esperienza delle scuole di eccellenza federate (Scuola Normale Superiore, Scuola Superiore Sant’Anna, IUSS Pavia) sembra rispecchiare una strategia precisa: le politiche che hanno colpito il comparto da ormai 10 anni, con una dolorosa sottrazione di risorse, hanno visibilmente indebolito il carattere pubblico e accessibile del sistema di istruzione superiore e il suo funzionamento ordinario. Ma i problemi strutturali del mondo accademico non possono essere risolti con una rete di università “di eccellenza”: nel Paese europeo con una delle più basse percentuali di laureati e di dottori di ricerca sulla popolazione generale, percorrere una strada del genere non può che aggravare una polarizzazione del sistema accademico tra pochi atenei di “Serie A” e tanti atenei di “Serie B”, sempre meno finanziati dallo Stato. La lettera dell’assemblea degli allievi della Scuola Normale, a nostro avviso più volte travisata da diversi interventi sulla stampa, ha sollevato un punto fondamentale: non si può pensare di risollevare il sistema universitario italiano occupandosi soltanto dell’eccellenza. Questa non può esistere senza l’integrazione con un tessuto di ricerca di base più ampio.

Resta ineludibile il rifinanziamento complessivo del sistema di istruzione superiore. Parte della discussione dovrebbe affrontare il tema della ripartizione del Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO), ormai fortemente penalizzante nei confronti degli atenei meridionali: questi sono sfavoriti già dal solo fatto di essere localizzati in territori economicamente più deboli, che non permettono di attrarre entrate da tasse e contributi in misura tale da competere nella ripartizione con i parametri finanziari che si riscontrano negli atenei del centro-nord (Realfonzo e Perone 2016). La discussione dovrebbe anche coinvolgere modelli di funzionamento che garantiscano democraticità e trasparenza nei processi decisionali, aspetti che senza dubbio sono stati carenti nella vicenda della Scuola Superiore Meridionale. L’emigrazione giovanile impetuosa, riguardante non solo i ricercatori e i dottorandi, non può che segnalare l’importanza di affrontare temi come reclutamento universitario e del diritto allo studio: si pensi che secondo la SVIMEZ ben 175.000 studenti sono emigrati verso un ateneo del centro-nord contro i soli 18.000 che sono emigrati da nord a sud. Inoltre, è inevitabile ricordare che proprio nei cosiddetti istituti di eccellenza si misurano i più alti tassi di precariato della ricerca e che una parte importante della discussione sulla nuova scuola, quella relativa alle infrastrutture ed ai servizi da fornire ai nuovi studenti e dottorandi, sia stata affrontata in moto quantomeno superficiale, rischiando inoltre di danneggiare il percorso di quei dottorandi che già operano nell’ambito della convenzione tra SNS e “Federico II”.

Riteniamo che si possa uscire positivamente dalla particolare vicenda della Scuola Superiore Meridionale solo con un reale coinvolgimento di tutte le componenti interessate, a partire dalle rappresentanze locali, in modo da definire in maniera trasparente e democratica il progetto scientifico, concretizzare l’effettiva collaborazione tra diversi ambienti accademici e risolvere il nodo dei servizi e delle infrastrutture. Più in generale, questi temi ci sembrano decisivi per riaprire una discussione sull’università pubblica sotto le insegne del rifinanziamento complessivo del sistema: non possiamo pensare che i problemi strutturali dell’università italiana e le disuguaglianze territoriali che la caratterizzano siano risolvibili con la sola apertura di nuovi istituti di eccellenza.

 

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