Professore, un tema che di recente è tornato al centro del dibattito pubblico è il regionalismo differenziato, previsto dall'articolo 116, terzo comma, della Costituzione. Perché solo ora, a distanza di anni dalla sua introduzione nel 2001, si torna a discuterne?
Non a caso il regionalismo differenziato ricompare nell’agenda politica, dopo anni di sostanziale assenza, all’indomani della bocciatura referendaria del progetto di revisione costituzionale del governo Renzi (dicembre 2016). Progetto che – non dimentichiamolo – prevedeva fra l’altro un netto ridimensionamento delle competenze attribuite alle Regioni ordinarie. Potrebbe dirsi che, quasi per reazione, le Regioni ordinarie cercano ora di sfruttare tutte le potenzialità offerte loro dalla Costituzione repubblicana; e l’art. 116, comma 3 è la più significativa fra queste.
Quali sono le principali possibilità e i maggiori rischi derivanti dall'autonomia differenziata delle Regioni ordinarie?
Un regionalismo differenziato virtuoso comporterebbe l’attribuzione a ciascuna Regione ordinaria, nell’ambito delle funzioni individuate dal comma 3 dell’art. 116 della Costituzione, di “forme e condizioni particolari di autonomia” negli ambiti materiali che meglio corrispondono alle sue peculiari caratteristiche. Si pensi ad esempio alle funzioni relative ai beni culturali per la Toscana e a quelle attinenti alla montagna per il Piemonte. Ambiti nei quali la Regione sarebbe chiamata a dimostrare di saper legiferare e amministrare meglio dello Stato, in virtù delle conoscenze e competenze significativamente presenti localmente. Attenzione al dato locale che trova conferma, secondo la lettera dell’art. 116, comma 3, della Costituzione, nella previsione di un coinvolgimento degli enti locali nell’elaborazione della richiesta regionale di nuove funzioni. Il relativo parere degli enti locali non va quindi inteso come un mero pro forma; così la Regione Lombardia dovrebbe ascoltare con attenzione quanto ha da dire il Comune di Milano sulle richieste regionali. Più in generale, occorre rammentare che il significato ultimo del regionalismo differenziato va identificato nel rendere servizi migliori al territorio regionale e ai suoi abitanti.
Ben lontana dal modello ora tratteggiato appare la rivendicazione regionale di tutte le funzioni potenzialmente attribuibili alla Regione ai sensi dell’art. 116, comma 3. È come ordinare dal menu tutte le portate che vi si leggono; si rischia l’indigestione … Fuor di metafora, richieste di tal fatta – come quella veneta – non sembrano basarsi su un’accurata analisi dei punti di forza (e di debolezza) della singola Regione. Se a ciò si aggiunge l’evocazione del tema del residuo fiscale (presente nei tre accordi preliminari conclusi dal governo Gentiloni con Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto) è difficile sfuggire all’impressione che la Regione voglia soprattutto far da sé, non solo rispetto allo Stato, ma anche rispetto alle altre Regioni, con buona pace dei doveri di solidarietà territoriale.
Tra le materie concorrenti, sulle quali le Regioni a statuto ordinario potranno chiedere maggiori forme e condizioni di autonomia, vi è l'istruzione: anche alla luce delle iniziative delle tre Regioni che già si sono attivate (Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna) si è parlato di regionalizzazione dell'istruzione,
sia relativamente al personale, che per quanto concerne l'offerta formativa, la valutazione, la disciplina delle funzioni e dell’organizzazione degli istituti.
C'è il rischio di un sistema a due velocità che penalizzerebbe le zone più svantaggiate del paese?
Il rischio è quello di accentuare differenze di rendimento del servizio dell’istruzione che già esistono e sono costantemente evidenziate dai risultati delle prove INVALSI. L’obiettivo dovrebbe essere quello di ridurre le diseguaglianze di fatto, secondo la limpida indicazione dell’art. 3, comma 2, della Costituzione; non certo di potenziarne le conseguenze, certamente negative.
Per di più, pur con i suoi noti limiti, il sistema nazionale di istruzione ha progressivamente favorito sia il consolidarsi di un comune senso di appartenenza alla comunità italiana sia l’attivazione, sebbene ancora insufficiente, di forme di mobilità sociale. Mi riesce sinceramente difficile capire per quali ragioni mettere a repentaglio l’uno e l’altra.
Non solo istruzione, ma anche Università e ricerca possono essere coinvolte dal regionalismo asimmetrico . In questo caso si tratta di una autonomia che potrebbe comportare, tra i vari effetti, una regionalizzazione della programmazione universitaria e del fondo ordinario destinato alle Università (con la definizione di quote premiali). Non crede che tale differenziazione possa acuire le diseguaglianze, mettendo a repentaglio coesione nazionale e sociale, quando la ricerca scientifica dovrebbe, invece, rappresentare il fondamento della crescita economica, sociale e culturale dell’intero Paese?
Oltre a quelli ora evidenziati con riferimento all’istruzione, l’eventuale regionalizzazione dell’Università e della ricerca pone un problema ulteriore. Come voi dell’ADI sapete benissimo, la ricerca scientifica, e l’ambiente accademico dove essa si svolge, risultano tanto più efficaci quanto più sanno aprirsi al confronto non solo nazionale ma anche e soprattutto internazionale. Le chiusure localistiche finirebbero per inaridire la ricerca e quindi l’Università che da essa trae la sua linfa vitale. Il regionalismo differenziato in questi ambiti andrebbe quindi valutato con attenzione, anche alla luce dell’autonomia dei singoli Atenei costituzionalmente garantita ai sensi dell’art. 33, ultimo comma, della Costituzione.
Cosulich | autonomia differenziata
Pubblicato Lun, 11/03/2019 - 07:36
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