Negli scorsi giorni la stampa ha riservato un'insolita attenzione all’Università e alla Ricerca, dedicando ampio spazio all’analisi dei numerosi problemi del settore e alle proposte per possibili soluzioni. Nel dibattito che si è generato, tuttavia, si avverte la presenza di un convitato di pietra: il dottorato di ricerca, il grande malato dell’Università italiana.
Secondo il MIUR il dottorato di ricerca, il più alto titolo di studio dell’ordinamento italiano, “fornisce le competenze necessarie per esercitare attività di ricerca di alta qualificazione presso soggetti pubblici e privati, nonché qualificanti anche nell'esercizio delle libere professioni” [1]. Malgrado l’importanza riconosciuta al dottorato di ricerca, tuttavia, continuano a pesare su di esso gli effetti di improvvide misure di legge che, unite al definanziamento del settore della ricerca, ne stanno decretando una “mutazione genetica” dagli effetti perversi e deleteri.
Per cominciare, negli ultimi dieci anni i posti di dottorato banditi annualmente in Italia sono calati del 44.5%, passando da circa 16000 a poco più di 8500. La V Indagine ADI su Dottorato e Post-Doc ha evidenziato le ragioni del calo dei posti a bando: gli effetti della Legge 133/2008 (“tagli lineari”) e gli stringenti criteri contenuti nelle linee guida per l’accreditamento dei corsi di dottorato. Il dimezzamento dell’offerta dottorale su scala nazionale si ripercuote in maniera disomogenea a livello locale, in un processo che l’ADI ha definito di “compressione selettiva”. La percentuale di posti banditi sul totale, infatti, aumenta del 6% al nord e diminuisce in misura analoga nel sud del paese. A livello europeo la posizione dell’Italia è pessima: nel 2012, infatti, il nostro paese risultava al terzultimo posto per numero di dottorandi ogni mille abitanti.
Gli interventi legislativi hanno inoltre frammentato l’offerta dottorale in una serie di posizioni con caratteristiche molto differenti. Borsisti, non borsisti, dottorandi “industriali”, “in apprendistato”, “innovativi”: una pletora di nuove figure che, lungi dall’arricchire l’offerta formativa, sembra funzionale solo a parare il colpo inferto dai tagli. Come se non bastasse, alcune di queste figure sono oggetto di discriminazione rispetto alle altre: i dottorandi “innovativi”, ad esempio, sono costretti a firmare una dichiarazione in cui accettano di restituire una annualità della borsa in caso di valutazione negativa.
L’emanazione del D.M. 45/2013, inoltre, ha rappresentato un grosso passo indietro sul fronte dei diritti dei dottorandi. In primo luogo, a differenza del precedente D.M. 224/1999, non sono più garantiti tempi certi per il termine dei lavori delle commissioni giudicatrici; l’aumento pari al 50% della borsa di dottorato per i periodi all’estero, poi, continua a non essere previsto per i dottorandi senza borsa; ai dottorandi, inoltre, non è riconosciuto alcun compenso per le ore di didattica integrativa agli studenti che possono essere previste nel loro progetto formativo.
Uno degli obiettivi storici dell’ADI è il superamento del dottorato senza borsa. Gli estensori del DM 45/2013 non hanno saputo né voluto operare in tal senso. Per l’ADI il dottorato senza borsa, con gli stessi doveri e carichi di lavoro di quello con borsa, è in aperta violazione alla Carta Europea dei Ricercatori e lede la dignità di tutti i ricercatori in formazione.
Persino su uno dei pochi diritti garantiti dal D.M. 45/2013 continuano a registrarsi difficoltà, a 4 anni dalla sua emanazione. In alcuni atenei, infatti, i dottorandi non hanno ancora la possibilità di accedere al fondo aggiuntivo pari al 10% della borsa per attività di ricerca oppure vedono ristrette, senza alcuna giustificazione, le possibilità d’uso del fondo.
Ma la ciliegina sulla torta è data dall’abolizione dell’obbligo di esenzione dei dottorandi dalle tasse universitarie. Come risultato, numerose università italiane si sono affrettate ad imporre tasse per l’iscrizione ai corsi di dottorato a tutti i dottorandi, borsisti inclusi. Da indagini ADI emerge che la tassazione sul dottorato di ricerca erode in maniera rilevante l’importo complessivo della borsa di dottorato: all’Università “La Sapienza” di Roma, ad esempio, si registra un picco di 1953 euro per l’iscrizione ai corsi. Fortunatamente, grazie all’impegno dell’ADI, tra le misure della Finanziaria 2017 è stato inserito l’obbligo, per gli atenei, di esentare dalle tasse i dottorandi privi di borsa di studio.
Ma i mali del dottorato di ricerca non si fermano all’accademia. L’azione dei governi che si sono succeduti alla guida del paese negli ultimi anni, infatti, è stata molto carente anche sul fronte della valorizzazione del titolo di dottore di ricerca al di fuori dell’Università.
Nel settore privato il governo non è ancora riuscito a scalfire la diffidenza di alcuni settori imprenditoriali nei confronti del dottorato di ricerca, né a connettere il tessuto produttivo del paese con quello innovativo. Le due forme di intervento concepite in questi anni sono risultate entrambe deficitarie: da un lato interventi come PhD Italents, un “placement” per dottori di ricerca più simile ad una “lotteria” che ad una selezione per merito, non permettono la definizione di un canale di reclutamento stabile di dottori di ricerca per le imprese innovative; dall’altro, il modello del dottorato industriale mostra ormai tutti i suoi limiti, con fondi per la ricerca che - senza un adeguato controllo da parte del pubblico - vengono messi al servizio delle necessità delle aziende, senza alcuna ricaduta in termini di innovazione.
Per quanto riguarda la Pubblica Amministrazione, ADI ha presentato al ministro Madia una serie di proposte volte a valorizzare il titolo in sede concorsuale e nel corso della carriera lavorativa. Le nostre proposte, dettagliate fino al livello del possibile dettato di legge da adottare, per il momento sono rimaste purtroppo inascoltate.
Nel settore scuola la valorizzazione del dottorato si è purtroppo fermata al riconoscimento di un buon punteggio nel Concorso Scuola 2016. Con l’attivazione del canale di reclutamento FIT sono ancora una volta cambiate le carte in tavola, e numerosi colleghi rischiano di rimanere penalizzati dalla mancanza di requisiti che il MIUR ha inserito nel decreto relativo. L’ADI ha inviato al ministero e alle competenti commissioni parlamentari una serie di proposte, su cui ha registrato una parziale apertura. Il MIUR, tuttavia, continua a rinviare la convocazione di un tavolo per la valorizzazione del dottorato di ricerca nella scuola, promesso all’ADI da più di un mese e mai concretizzatosi.
In sintesi, in questi anni l’azione dei governi sul dottorato si è dispiegata attraverso provvedimenti minimi, che hanno comportato scarso o nullo impiego di maggiori risorse economiche. Il sistema, già asfittico per mancanza di fondi, è rimasto così intrappolato in una fitta rete di inutili norme burocratiche, che ne aggravano i problemi e ne impediscono il rilancio.
Al di là di una necessaria semplificazione delle normative e della revisione del D.M. 45/2013, la proposta dell’ADI è quella di adottare un piano di rifinanziamento del dottorato di ricerca, da articolarsi in tre fasi, fondato su un approccio unitario su scala nazionale e su criteri di equità sociale e territoriale:
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Riconoscimento ai dottorandi della dignità del proprio lavoro, secondo quanto previsto dalla Carta Europea dei Ricercatori. Va dunque superata ogni discriminazione tra borsisti e non borsisti, riconoscendo anche a questi ultimi la DIS-COLL e l’aumento della borsa per la mobilità all’estero; è necessario inoltre giungere ad una completa abolizione della tassazione sul dottorato.
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Superamento del dottorato senza borsa attraverso la copertura totale dei posti a bando e aumento del numero di posti di dottorato banditi ogni anno, per consentire all’Italia di raggiungere la media dei paesi europei per numero di dottorandi ogni mille abitanti.
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Aumento della borsa di dottorato, agganciandola al minimale contributivo INPS, per contrastare l’erosione dell’importo dovuto all’aumento dell’aliquota contributiva sulla gestione separata.
ADI mette inoltre a disposizione dei legislatori le proprie proposte sulla valorizzazione del titolo di dottore di ricerca. Siamo pronti a discuterne, fin da subito, con chi vorrà assumersi l’impegno di definire un percorso per tradurre in breve tempo le nostre proposte in legge.
Il nostro è un piano ambizioso, certo, ma non irrealistico. Il piano di rifinanziamento illustrato prevede uno stanziamento di oltre 270 milioni di euro, una cifra che è solo una piccola fetta di quanto il governo intende stanziare per un unico centro di eccellenza come lo Human Technopole di Milano. Il rilancio della ricerca deve necessariamente passare anche per il rifinanziamento del dottorato, senza il quale i centri di eccellenza rimarrebbero delle vuote cattedrali nel deserto.
L’ADI non si rassegna allo status quo o a rivendicazioni corporative, né ritiene possibile alcuna reale riforma del sistema senza un massiccio investimento da parte del governo. L’aumento dei posti banditi e della borsa di dottorato, la ripresa del reclutamento accademico, la valorizzazione del titolo di dottore di ricerca nel sistema produttivo, nella scuola e nella pubblica amministrazione, sono parte di una serie di proposte inscindibili, che guardano al dottorato come momento formativo di una nuova classe dirigente, al servizio del paese.
Note:
[1] D.M. 45/2013, art.1 comma 3.
[2] Nota MIUR 24 marzo 2014, protocollo n.436
Pubblicato Lun, 24/07/2017 - 14:48
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